(“La Voce” del 22 maggio 2020)

La “Giornata del Laicato” aveva dato vita ad alcune idee per nuovi percorsi di annuncio del Vangelo, che avevamo chiamato “sperimentazioni”, ma oggi è ancora tutto sospeso perché  – impegnativa necessità – annunciare senza avere di fronte un volto è davvero al di là delle potenzialità di ogni linguaggio, per quanto sperimentale.

A pensarci bene – almeno da un certo punto di vista – la Pandemia non ha cambiato nulla, nemmeno una virgola.

Un mio maestro, tanti anni fa, ci diceva: “L’icona più visibile della Santissima Trinità, in ultima analisi, è ognuno di voi. Siatene consapevoli, e vivete le vostre vite”.

Questa è una vocazione assoluta, e che noi la viviamo in una piazza affollata o mediante una videoconferenza, nulla – ma proprio nulla – cambia.

Da un altro punto di vista, invece, questi mesi cambieranno tutto.

Ne usciremo – anche se la naturale tendenza psicologica alla negazione ci farà affermare con ostentata sicurezza che “si torna alla normalità, si riprende come prima” – più segnati dal nostro essere bisognosi, fragili, esposti.

Questa seconda prospettiva interroga profondamente l’impegno che ci siamo presi nella “Giornata del Laicato”.

Volevamo – ce lo siamo detti in tanti modi e lo abbiamo approfondito per quanto abbiamo potuto – sperimentare linguaggi per incontrare le persone e creare luoghi e tempi dove annunciare il Vangelo. Abbiamo parlato di musica e teatro, di storia dell’arte e di sport e abbiamo visto in questi mondi la possibilità di dare linguaggi all’annuncio eterno e immutabile: la salvezza che viene da Gesù.

Ma parlare di linguaggi – lo sa bene chi si occupa di comunicazione – è sempre, in primo luogo, interrogarsi sui destinatari. In ogni progetto di incontro con l’altro, “A chi è indirizzato ciò che comunichiamo?” è la prima domanda che sorge e senza la quale non è possibile rispondere alla seguente: “Qual è, dunque, il linguaggio giusto da usare?”.

Tutti noi che abbiamo a cuore, nei nostri diversi stati di vita, l’Annuncio, non faremo l’errore di pensare che basti “ricominciare”, che sia sufficiente un meccanico “Dov’eravamo rimasti?” per riprendere il cammino.

Al contrario, si aprirà un periodo di nuove riflessioni e di assunzioni di sfide.

Ecco il nuovo spunto di meditazione per la “Giornata del Laicato”: quali linguaggi per un annuncio che ci connetta con i nostri compagni di strada bisognosi, fragili, esposti?

Quali parole, quali gesti perché i nostri fratelli (pensiamo, noi laici, ai nostri colleghi del lavoro, alla cassiera spaventata del supermercato dove ci rechiamo almeno una volta alla settimana, al vicino che incrociamo ogni mattina…) si sentano oggetto del nostro amore, destinatari dei nostri gesti concreti di servizio e, in ultima analisi, ascoltatori del messaggio che abbiamo per loro?

Una cosa so: che la prima cosa che diremo ai nostri fratelli sarà: mi stai così a cuore che ho passato le giornate del lockdown a scervellarmi su come narrarti la cosa più bella – o meglio: l’unica cosa bella, quella che fa belle anche le altre – che ho avuto in dono: una vita salvata da Gesù.

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