16 marzo 2020

Riflessioni di un educatore al tempo del coronavirus, tra paura, cambiamenti e… umiltà

di Giorgio Maghini*

Ci sono due termini che, nel linguaggio parlato, si usano sovente come sinonimi ma tra i quali c’è, invece, un’opposizione di fondo: “educazione” e “pedagogia”.

Il primo richiama, etimologicamente, l’atto del “tirar fuori”; il secondo, invece, quello del “condurre i piccoli” (nell’antica Grecia, il “pedagogo” era lo schiavo incaricato di accompagnare il figlio del padrone a scuola).

Ciò che differenzia radicalmente i due termini è che l’educazione può essere progettata oppure no (anche cadere dalla bicicletta mi “educa”, cioè “tira fuori qualcosa” da me, non fosse altro che il proposito di stare più attento in futuro), mentre la pedagogia deve essere necessariamente basata su un progetto (per accompagnare a scuola un bambino, devo sapere dov’è la scuola!).

La situazione ideale si verifica quando i due termini si armonizzano o, in altre parole, quando un qualsiasi avvenimento della vita “mi educa” ma contemporaneamente incontro qualcuno che, nella relazione, mi aiuta a trarne spunto per migliorarmi.

È questa, ad esempio, l’armonia che si viene a creare quando incontriamo un bravo insegnante: la vita – senza che io l’abbia deciso (né desiderato!) – mi mette davanti all’obbligo di imparare il teorema di Pitagora, il bravo insegnante mi accompagna e mi guida non solo ad impararlo ma – soprattutto – a capire perché quel teorema può essere importante per la mia vita: educazione e pedagogia fuse in una relazione significativa.

In quest’ottica, appare evidente che questo spiazzante periodo che stiamo vivendo – chiusi in casa, riscoprendo termini che credevamo scomparsi come “isolamento” o “quarantena”, imparando nuovi modi di salutare, misurando i centimetri che ci separano dagli altri, discutendo di disinfettanti e gittata della saliva – ci sta “educando”; sta, cioè, “tirando fuori” da noi pensieri e comportamenti inattesi.

Da questa “educazione” consegue un obbligo pedagogico: che noi adulti “guidiamo” i più piccoli e ci rendiamo disponibili a essere a nostra volta guidati. Per farlo, occorre darsi tempo e separare con calma agli spunti di riflessione che questa epidemia ci sta mettendo davanti.

Naturalmente, ognuno individuerà i propri ma, ragionando da educatore, provo a delinearne quattro che ci riguardano tutti.

Primo spunto: accettare le dissonanze cognitive.

Ognuno di noi impara qualcosa di nuovo se e solo se è disposto a mettere in gioco la sua visione del mondo: fossimo vissuti attorno al 1492 e avessimo sentito un certo Cristoforo Colombo teorizzare che si poteva “Buscar el levante por el ponente” (vale a dire: “Andare a est facendo rotta a ovest”), avremmo avuto due possibilità: fare la faccia sdegnata e dire che non avevamo tempo da perdere con un pazzo come lui, essendo così evidente che per andare a est si va verso est, oppure lasciare che le parole di quell’uomo mettessero in discussione i nostri schemi mentali.

Questo non significa, sia chiaro, che qualsiasi affermazione – anche la più bislacca – va presa sul serio, ma che le nostre convinzioni, per rimanere vive, devono sempre essere pronte a evolvere (l’esatto contrario – per inciso – del “si è sempre fatto così”, ma su questo non aggiungo nulla, perché Papa Francesco ha già detto parole definitive).

L’imprevisto – e questo virus lo è! – è il miglior attivatore di dissonanza cognitiva, cioè della premessa necessaria per l’apprendimento.

Secondo spunto: riconoscerci parte di un numero quasi infinito di sistemi.

Nel suo libro “Mente e natura”, Gregory Bateson racconta di quando ha posto ai suoi studenti la domanda fondamentale nella sua ricerca sulla forma della mente: «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?». Non proviamo nemmeno a buttar giù risposte frettolose a una domanda così dirompente, però è certo che il virus ci ha ricordato che facciamo parte di un mondo profondamente intessuto di connessioni: in che relazione stanno Wuhan e Codogno? E un’influenza, per quanto virulenta, con l’economia mondiale? E l’informazione con la fisiologia umana?

Il Papa ha chiamato “Casa comune” il nostro pianeta, e non ci sono definizioni migliori. Con serietà, occorre dire che “appartenere ad una casa comune” significa che la preoccupazione per il virus non ci autorizza a scordare che in Siria c’è una guerra da quasi dieci anni, che al confine turco-greco esseri umani vengono trattati come strumenti di pressione militare, che la Libia è una polveriera attorno alla quale volano scintille. Eccetera.

Terzo spunto: “Outdoor education”.

In quasi tutti gli ordini di scuola, di questi tempi, si riflette sulla “Outdoor education”, su quell’approccio, cioè, che vede nell’ambiente naturale il miglior contesto (e il miglior strumento) possibile per apprendere, sviluppare schemi corporei e cognitivi, definire orizzonti di sviluppo.

Anche per chi non è più in età scolare, il virus rappresenta una provocazione a riscoprire il rapporto con l’ambiente.

Ci piaceva credere al dominio della tecnica sulla natura, grazie al quale avremmo potuto produrre infinitamente, consumare smodatamente, inquinare senza limiti.

Non era esattamente così, ed è bastata una pallina di circa cento miliardesimi di metro di diametro per ricordarcelo.

Quarto spunto: la radicalità del buio.

Il virus ci costringe a fare i conti con una dimensione psicologica che credevamo di avere addomesticato: la morte che arriva tanto improvvisa quanto invisibile.

Non è altro che la “paura del buio” che conoscevamo così bene da bambini. Ora che siamo diventati adulti, razionali e consapevoli tornare a farci i conti non è semplice.

E quindi?

Supereremo anche questa emergenza, come tante che abbiamo alle spalle.

La scienza sta mobilitando tutte le sue energie più luminose.

Persino la politica si sforza di ritrovare un contegno e fa il suo lavoro: connette, sostiene, tenta di progettare.

A ognuno di noi compete ora il dovere di fare i conti con questo periodo che stiamo attraversando: che cambiamenti noto in me?

Cosa “intendo farmene” del Coronavirus? Come posso diventare un uomo migliore dopo questa esperienza?

A me sembra che tutti gli spunti elencati sopra richiamino un’unica, luminosa, parola-chiave: umiltà.

Pedagogia – eravamo partiti da questo – è l’arte di “condurre i piccoli” o chi sa farsi tale. Riconoscerci tutti (e reciprocamente) più fragili, bisognosi di aiuto e di relazione – in una parola: piccoli – non potrà che farci un gran bene.

In questo c’è – indubitabilmente – una pedagogia più grande di noi alla quale è consolante affidarci.

*Pedagogista, Counsellor ad indirizzo sistemico-relazionale

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 marzo 2020

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