I “Bambini Libellula” sono coloro che sin dai primi anni di vita avvertono il disagio di sentirsi in “un corpo sbagliato”. Sempre più nel mondo, molti di loro grazie all’uso di bloccanti ipotalamici, di una terapia ormonale per mascolinizzare o femminilizzare il corpo e di procedure chirurgiche, decidono di “cambiare sesso”. Un tema complesso e delicato in cui il principio di prudenza dovrebbe essere il primo da considerare. Sempre più, invece, i sostenitori del gender fluid tendono ad assumere una posizione totalitaria
di padre Augusto Chendi
In tutto il mondo, negli ultimi anni si riscontra un sensibile aumento delle domande di riassegnazione di genere fra i bambini e gli adolescenti. Questo fenomeno, definito con il termine “Bambini Libellula”, indica coloro che sin dai primi anni di vita avvertono il disagio di sentirsi in “un corpo sbagliato”. Si tratta di un fenomeno, di carattere politico oltre che scientifico, recentemente riportato all’attenzione dell’opinione pubblica statunitense e, di riflesso, mondiale, a motivo della posizione assunta dal Dipartimento di Giustizia del presidente Joe Biden con la quale tutti i Procuratori generali degli Stati federati venivano avvertiti che, se avessero impedito ai minori di ricevere “cure per l’affermazione di genere”, avrebbero potuto violare le leggi sui diritti civili.
Al riguardo, con il termine “varianze di genere” si vuole indicare che, al di là della classica dicotomia che considera i generi esistenti solamente due (maschile e femminile), ve ne possano essere numerose altre. I bambini e gli adolescenti gender variant sono, quindi, persone la cui modalità di espressione del genere differisce da ciò che ci si aspetterebbe da loro in base al sesso biologico a cui vengono assegnati alla nascita. In quest’ottica, le varianze di genere possono essere viste come condizioni nelle quali, nel corso dello sviluppo psicosessuale del bambino/adolescente, si osserva una organizzazione dell’identità di genere atipica. I bambini e gli adolescenti che percepiscono la propria identità di genere incongrua rispetto al proprio corpo e al ruolo di genere al quale dovrebbero conformarsi possono essere, per questo motivo, infelici per le caratteristiche fisiche e le funzioni sessuali del proprio corpo ed esprimere il desiderio di essere riconosciuti come appartenenti all’altro genere. A questo si aggiungono difficoltà a livello emotivo e comportamentali insieme a sofferenza per la propria condizione particolarmente in adolescenza, a causa dei cambiamenti di un corpo che non accettano e che ritengono responsabile di tutte le loro pene.
Tali persone, non riconoscendosi nel genere attribuito loro alla nascita, talvolta possono richiedere di effettuare un lungo e delicato iter che le porterà a modificare il proprio sistema ormonale, i propri caratteri sessuali primari e secondari e i propri dati anagrafici per essere riconosciute come appartenenti al genere che sentono proprio fin dall’infanzia e per adeguarsi ai rigidi schemi di genere imposti dalla società. Rispetto all’età evolutiva, anche al di là del dibattito negli USA, vi sono alcune questioni etiche sulle quali le comunità, sia scientifica sia sociale, dibattono già da alcuni anni. E cioè l’approccio psicologico-clinico alle varianze di genere e l’uso dei bloccanti ipotalamici con conseguente blocco della pubertà.
Al riguardo, atteso che l’approccio psicologico-clinico delineato finora dalla Comunità scientifica non è esente da sollevare delicati problemi etici, la questione ancora più complessa e attualmente dibattuta è relativa all’uso dei bloccanti ipotalamici e ai loro effetti sulla pubertà. Gli attuali interventi previsti per le varianze di genere in pre-adolescenti e adolescenti, secondo i Protocolli internazionali, sono riconducibili a tre, ovvero, in progressione, l’uso di bloccanti ipotalamici, cioè di ormoni che sopprimono la produzione di estrogeni o testosterone, ritardando così i cambiamenti fisici della pubertà; l’adozione di una terapia ormonale per mascolinizzare o femminilizzare il corpo; e, da ultimo, l’adozione di procedure chirurgiche volte ad una riattribuzione del sesso, e che possono essere intraprese solo con la maggiore età.
Naturalmente interventi su minorenni, sebbene posti in atto per stadi successivi, sollevano un delicato dibattito etico, oltre che scientifico e sociale. A questo riguardo, attualmente una delle principali questioni è relativa all’utilizzo dei bloccanti ipotalamici. In specie, la somministrazione di tali ormoni prima del sopraggiungere della pubertà, bloccando la produzione di estrogeni o testosterone e portando il pre-adolescente in una condizione di neutralità, prima di tutto avrebbe la funzione di fornire al giovane, alla famiglia e agli operatori sanitari tempo e spazio psicologico per comprendere quale sia la migliore strada per quel ragazzo o ragazza. Impedirebbe, inoltre, momentaneamente lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari con alcune conseguenze sul piano fisico, come, ad esempio, gli eventuali futuri interventi chirurgici di riattribuzione del sesso; ma soprattutto sul piano psicologico, apportando un miglior adattamento e un più sereno sviluppo della propria identità, specialmente per i casi di pre-adolescenti che vivono con una tale ansia i cambiamenti di un corpo che non accettano, tanto da rischiare di mettere in atto tentativi di suicidio.
È evidente che una questione così delicata e complessa sollevi un acceso dibattito etico. In particolare, pur nel rispetto del principio di autodeterminazione, ci si chiede quanto decisioni impegnative come l’eventuale blocco della pubertà o l’assunzione di ormoni che interferiscono sul genere (cross gender) possano essere prese da un minorenne, ma al contempo ci si chiede quanto sia giusto che tali decisioni possano essere prese dai genitori. Inoltre, nel rispetto del principio medico secondo il quale non bisogna arrecare danni al paziente, ci si chiede se la somministrazione di bloccanti ipotalamici o di ormoni che inibiscono la naturale identificazione sessuale o di genere – senza che al momento vi siano studi che ne conoscano gli effetti a lungo termine – possa davvero essere considerata un beneficio per la persona, soprattutto considerando che molto probabilmente renderà il bambino o la bambina sterili. Ancora, nel rispetto del principio del beneficio per la persona, ci si chiede, quindi, se la somministrazione di bloccanti ipotalamici si possa davvero considerare un beneficio, viste anche le notevoli conseguenze negative che ne derivano; e questo tenendo conto anche dell’attuale assenza di studi a lungo termine. La somministrazione dei bloccanti ipotalamici può, inoltre, come si ipotizza, contribuire alla persistenza della varianza di genere? E, infine, questi interventi sulla varianza di genere sono veramente reversibili, come si pretende siano, o invece irreversibili?
Nel caso specifico dei cosiddetti “Bambini Libellula” ci si avvede come si è posti di fronte a scelte che, partendo da un ambito prettamente psicologico-clinico, immediatamente afferiscono a questioni etiche imprescindibili, che richiedono risposte che sempre e comunque salvaguardino e promuovano la dignità della persona umana. E questo sia nella pratica psicologico-clinica, in ordine alla quale ancora non si è giunti a delineare il miglior trattamento, sia, e ancor più, nella somministrazione di terapie ormonali volte al rallentamento o al blocco dello sviluppo puberale.
Oltre a ciò, è altresì importante chiarire che la questione, seppur brevemente affrontata, evidenzia risvolti culturali e politici che non possono essere sottaciuti, e cioè l’impatto che un certo approccio alle tematiche relative alla sessualità e all’identità sessuale sta avendo sulla società e nel consenso sociale. In altre parole, anche sulla base della vicenda statunitense, ciò a cui stiamo tutti assistendo è un preoccupante utilizzo in chiave politica di rivendicazioni che discendono più da posizioni ideologiche che da un confronto scientifico, culturale e civile.
Nessuno, infatti, vuol negare che ci possano essere situazioni di disagio individuale ed esistenziale legate alla percezione della propria identità sessuale rispetto al proprio corpo. Ma da qui a sostenere che l’essere umano sia “fluido” da un punto di vista sessuale e che il maschile e il femminile altro non siano che degli stereotipi sociali da disarticolare per liberare l’essere umano da ogni oppressione o – come attesta il dibattito in USA – che negare tale dimensione di “fluidità” nella sfera della sessualità nella sua accezione ampia vada contro i diritti civili, è un’affermazione assolutamente non scontata e tutta da provare.
Ciò che sta diventando preoccupante nella nostra cultura non è che i sostenitori della fluidità dell’essere umano abbiano sempre più spazio nella discussione pubblica e nella società, ma che questa posizione tenda a diventare totalitaria. Il caso dei “Bambini Libellula”, in specie, nell’ambito della cosiddetta “lotta per l’identità di genere” – il cosiddetto “gender” -, deve rendere attenti ad un fenomeno culturale forse ancora più inquietante, ovvero la constatazione che, esaminando l’impatto che un certo approccio alle tematiche relative alla sessualità e all’identità sessuale sta avendo nella e sulla società, ci troviamo in un’epoca di inflazione generale, esponenziale – e talvolta grottesca – delle diagnosi cliniche che patologizzano tutti; e, per un altro verso, ci troviamo di fronte ad una depatologizzazione ideologica delle svariate forme di sessualità umana.
Articolo pubblicato su “La Voce” del 21 ottobre 2022 (Rubrica “Bioetica e Società”)
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