La nobile arte della politica, fatta di passione e concretezza, sempre più “pervertita” dai tweet e dai talk show, e ormai rimpiazzata dalla tecnocrazia. Spunti per non abbandonarci alla corrente dell’antipolitica e del disincanto assoluto

di Andrea Musacci

Forte è la tentazione di abbandonare la battaglia, di farsi travolgere dalla corrente ipermodernista che investe da anni anche il mondo politico, con i suoi dogmi sul primato della comunicazione, sul relativismo estremo di idee e valori, sul dominio dei sondaggi e del marketing.

Ma nella settimana che deciderà la nuova composizione del nostro Parlamento, vale la pena di abbozzare alcuni appunti che vadano oltre la mera “competizione” elettorale (espressione, non a caso, figlia di una società come la nostra fondata sul culto dell’agonismo).

Partiamo da un po’ di dati: lo scorso 9 settembre, le ultime previsioni danno l’astensione alle Politiche del 25 settembre tra il 33 e il 41%. Numero che probabilmente sarà più basso ma che in ogni caso dice di un calo continuo della partecipazione elettorale alle elezioni parlamentari: tra il 1944 e il 1969 era del 92,4%, tra il 1970 e il 1992 del 90,4%, tra il 1993 e il 2008 dell’82,9%. Infine, tra il 2009 e il 2021 è arrivata al 74%. Un altro dato, dell’aprile 2021: i primi cinque partiti in Italia insieme a livello nazionale contano circa 700mila iscritti. Sembrano tanti, ma non sono granché: Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano nei momenti di massima partecipazione sommati contavano quasi 4milioni di tesserati. Senza contare gli altri partiti. Ma più che un fatto di numeri, si tratta di qualcosa di molto più profondo, che riguarda la trasformazione antropologica che la società italiana, e in generale l’Occidente, vive da mezzo secolo. Trasformazione che ha sbriciolato i partiti, per loro natura garanzia di una presenza, di una continuità, di un’appartenenza. Tutti concetti inutili nell’universo nichilista del digitale e dell’istantaneo.

Né luoghi né simboli

La società dei consumi – difficile negarlo – ha lentamente eroso un sistema simbolico che rese naturale la nascita di comunità “forti” come i partiti. Pur coi loro rischi e le loro contraddizioni – conformismo interno, ideologismo -, i partiti hanno rappresentato delle vere e proprie case della democrazia, della partecipazione – fisica, diretta (meglio specificarlo) -, del riconoscimento reciproco nella condivisione di una passione, di una storia, di una sorte.

Nei decenni i partiti sono scomparsi perché se da una parte si è diffuso un naturale desiderio di autonoma ricerca di una propria identità, dall’altra gli unici riti e simboli ammessi sono quelli legati al mondo del consumo. Fare politica in una comunità vuol dire, invece, la presenza di sedi fisiche, di riunioni anche lunghe, di confronto, di discussione, di costruzione di progetti. La condivisione di qualcosa che è molto più del mero aspetto amministrativo. Significa riconoscersi sodali sotto un simbolo, con una storia alle spalle a tracciare un solco per il futuro. Non esistono democrazie digitali, diciamolo chiaramente: la democrazia si fa a contatto con gli altri, nella conoscenza diretta, guardandosi negli occhi.

Se – come ci dicono da decenni – non esistono più verità sovrastoriche, come possono esistere storie politiche da costruire, che abbiano un passato e un avvenire? Tutto è ridotto alla miseria del presente che non riesce a vedere oltre sé stesso. Tutto quindi si sfibra, perde consistenza, smarrisce il senso. 

«Quel che resta dopo tante negazioni – scriveva Del Noce – è l’affermazione del totale egocentrismo; totale nel senso che tutto acquisisce significato soltanto in ciò che può diventare strumento per l’affermazione dell’io»1.

La toppa peggio del buco

Annientato quell’universo simbolico in cui si poteva pronunciare un “noi” vero, venuta meno quell’identificazione calda, ben poco è rimasto. Surrogati della vera politica, fautori di un falso riconoscimento: il leaderismo (più che mai marcato), l’assemblearismo digitale, le primarie. Tutte riproduzioni degli stessi meccanismi comunicativi consumistici. Si presentano i candidati come fossero protagonisti di un reality. Ci si reca al seggio delle primarie come a un supermarket. Davanti a una tastiera, l’istinto e la solitudine sono gli unici a vincere. Nulla rimane, se non l’illusoria sensazione di aver compiuto un atto “politico”. Non c’è costanza né presenza, men che meno impegno. Non ci si assume nessuna reale responsabilità nei confronti della propria comunità. L’antipolitica ha dato il colpo di grazia alla politica, non producendo nessuna alternativa reale e aprendo, anzi, praterie alla deformazione della politica in tecnocrazia.

Comunicazione ipertrofica

Se il messaggio politico dev’essere immediato, non può che rimetterci la capacità di linguaggio e di elaborazione delle persone. Non possono più esistere questioni complesse: questa ipertrofia della comunicazione va a scapito del pensiero lungo e profondo. In una società come la nostra, che ormai per luogo comune chiamiamo “complessa”, tendiamo invece a semplificare ogni idea, ogni storia, a banalizzare ogni identità. Il mondo comunicativo contemporaneo finisce per diventare il regno dell’effimero: non si tratta, infatti, di demonizzare l’importanza dell’immagine e della sua cura, ma di denunciare come questa abbia finito per divorare tutto il resto: capacità di andare in profondità, di andare oltre l’immediatezza di un logo.

Ritrovare un’anima e una dimora

Prendersi il tempo per pensare, per discernere insieme, creando collettivamente una storia. Questa è, ancora, l’unica possibilità per uscire dalla delegittimazione di tutto ciò che è politica. Non si tratta di riesumare qualcosa del secondo Novecento, ma nemmeno di demonizzarlo nel suo esser stato tempo di conflitti e confronti autentici, e più che mai legati alle vite delle persone. 

C’è bisogno, quindi, di nuove case politiche, nelle quali libertà, memoria ed esperienza convivano in equilibrio. «Abbiamo bisogno di una dimora – scrive Bellamy -, di un luogo dove ci possiamo ritrovare, un luogo che diventi familiare, un punto fisso, un riferimento intorno al quale il mondo intero si organizzi»2.

Abbandoniamo tweet e talk show: torniamo a una politica con un’anima, una visione, una radice, uno spirito comunitario. Fondato – perché no – su uno spirito sinodale. In questo, ancora una volta, abbiamo tanto da imparare dal cammino della Chiesa.

1 Augusto Del Noce, Modernità, 1982.

2 François-Xavier Bellamy, Dimora, 2018.

 

Articolo pubblicato su “La Voce” del 23 settembre 2022

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