10 febbraio 2020
In occasione del Giorno della Memoria, l’Eurispes ha reso noto il suo “Rapporto Italia” 2020, nel quale emerge anche un dato inquietante, seppur non del tutto nuovo: il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, e il 15,6% la nega.
Ritornano puntuali, e necessari, dunque, riflessioni su ciò che è stato e sull’utilità di cerimonie e incontri pubblici sempre più simili a stanchi rituali da “consumare” quasi per dovere. La memoria della Shoah, infatti, non può mai diventare “ordinarietà”: “è nella natura delle cose – ricordava Hannah Arendt ne “La banalità del male” – che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando ormai appartiene a un lontano passato”.
Se la memoria è azione
Per noi cattolici la memoria è essenza della nostra fede: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me», sono le parole di Gesù nell’ultima cena (Lc 22, 19). Papa Francesco in “Lumen Fidei” parla della trasmissione della fede nella Chiesa, attraverso la dottrina, la vita e il culto: “La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell’atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa”. Per questo, “il credente – scrive il Papa in “Evangelii Gaudium” – è fondamentalmente ‘uno che fa memoria’ “.
È su questo “fare” tipico della memoria (del credente e non), che vorrei soffermarmi. Etimologicamente, la memoria è legata alla sollecitudine, e richiama quindi un essere attivo del soggetto, una cura, un’“apprensione”. Hans-Georg Gadamer in “Verità e metodo” definiva la memoria non come una “semplice disposizione o facoltà” ma come qualcosa che appartiene alla “costitutiva storicità dell’uomo”, quindi come qualcosa di non meccanico, ma che presuppone una ricerca da parte del soggetto. “Mèmore” è colui che, attivamente, conserva il ricordo di un fatto, e lo conserva non solo nella mente ma anche nel cuore (oltre che in modo continuo). Memoria è dunque capacità di “ritenere”, nel senso di trattenere qualcosa prendendosene cura, perché ciò che è stato è per sua natura fragile, “corruttibile”: è qualcosa che non si mantiene in vita da sé, ma dev’essere di continuo ravvivato.
L’importanza del discernimento
E’ – inoltre – sempre in un presente che si fa memoria, l’eredità del passato va sempre ri(tradotta) in una situazione diversa. “Quello che hai ereditato dai tuoi padri, riguadagnalo, per possederlo” scriveva Goethe nel Faust. Ritradurre nel presente, quindi, significa fare un’azione di discernimento, letteralmente di “scegliere separando”, tra ciò che va trattenuto e curato, e ciò che invece va non rimosso ma non ripetuto, “ri-tenuto” nel presente. E’ un atto insieme di libertà e responsabilità che non spetta solamente alla collettività ma anche e soprattutto a ogni persona. E per far questo, è necessario rimparare la pazienza: la memoria, infatti, non richiede solo il distacco temporale dai fatti in oggetto, ma un ulteriore periodo necessario per discernere.
Fiducia e speranza, antidoti ai revisionismi
Sempre Gadamer nell’opera sopracitata scriveva: “il ‘ricordo’ (come oggetto) (…) ha in sé qualcosa di prezioso, perché mantiene presente per noi il passato in quanto è una parte di esso che non è passata”. Il passato, dunque, non si perde, ma “rimane presente” grazie al ricordo che lo tiene in vita, non lo fa “passare” del tutto, non lo fa essere “superato”.
Nel mantenere i ricordi, naturalmente, le moderne tecnologie legate alla riproduzione di voci e immagini aiutano, e non poco. Ma non sono sufficienti, soprattutto in un’epoca come la nostra contrassegnata da una paura, quella delle cosiddette fake news, una paura “sana” e giustificata ma che ha come propria deformazione quella del “complottismo” come forma di revisionismo: un sospetto che, se diventa ossessione, porta a tragiche e ben note conseguenze. In un’epoca in cui il revisionismo è un pericolo concreto, tornano utili – pur nella loro radicalità – le parole di Herbert Marcuse ne “L’uomo a una dimensione”: la memoria, scriveva, può essere “sovversiva” perché “richiama il terrore e la speranza dei tempi passati”.
Terrore e speranza: per riconoscerli come tali serve lucidità, serve la ricerca storica: seppur ci si muova nell’ambito delle scienze “inesatte”, non tutti possono essere “scienziati”, non tutti possono indagare allo stesso modo ogni documento, ogni segno del passato. Per questo, nella trasmissione della memoria vi è sempre, inevitabilmente, una parte di affidamento, di fiducia nell’onestà e nelle competenze di chi ce l’ha tramandata. Il resto sta a noi, quell’azione fondamentale del “fare” memoria spetta a ognuno, il saper sviluppare il più possibile una capacità di discernimento di ciò che riceviamo. Per questo, appunto, la memoria è sempre un gesto attivo, una scelta, una responsabilità. E la responsabilità è qualcosa di rivolto anche all’avvenire. Papa Francesco nell’enciclica “Lumen Fidei” parla della fede di Abramo come di “un atto di memoria” della promessa fattagli da Dio. Memoria che, però “non fissa nel passato”, scrive il Pontefice, ma “diventa capace di aprire al futuro, di illuminare i passi lungo la via”: la fede è, dunque, “memoria del futuro, memoria futuri”, è “strettamente legata alla speranza”.
Una speranza attiva, per impedire che gli orrori del passato non si ripetano più, certi che il male non avrà l’ultima parola.
Andrea Musacci
Pubblicato sull’edizione de “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 febbraio 2020