Il 15 novembre al Corpus Domini conferenza di Piero Stefani: qui una sua riflessione

di Piero Stefani

Tutti i concili dal primo (Nicea 325) all’ultimo (Vaticano II 1962-1965) sono legati a una stessa successione: indizione, svolgimento dei lavori, promulgazione dei documenti finali e loro ricezione. Per quanto abbiano avuto, chi più chi meno, ricadute esterne, lo scopo primo dei processi conciliari resta intraecclesiale. La loro applicazione è questione eminentemente interna. Ciò vale, va da sé, anche per il Vaticano II. In quest’ambito si registra però una parziale eccezione dovuta alla natura di alcuni dei suoi documenti.

Il Vaticano II ha prodotto tre generi di testi: quattro costituzioni che sono i pilastri fondativi; una serie di decreti che riguardano aspetti specifici della vita della Chiesa e tre dichiarazioni, un genere di documento inedito relativo al modo in cui la comunità ecclesiale si rivolge a realtà esterne. Accanto a una dedicata all’educazione, ci sono due dichiarazioni, molto più rilevanti, destinate rispettivamente alla libertà religiosa (Dignitatis humanae) e alle relazioni con le religioni non cristiane (Nostra aetate). Quest’ultimo documento non è, in sé e per sé, direttamente dialogico, si occupa piuttosto dell’atteggiamento assunto dalla Chiesa nei confronti delle altre religioni; tuttavia è evidente che la sua applicazione non è circoscrivibile solo a un ambito intraecclesiale, essa dipende anche da “altri”.

Il processo che portò alla stesura finale della Nostra aetate fu particolarmente laborioso: all’origine il documento doveva occuparsi soltanto delle relazioni con gli ebrei; unicamente i lavori conciliari l’hanno allargato a tutte le altre religioni non cristiane. L’imprinting iniziale ha lasciato comunque tracce profonde. Con la parziale eccezione dell’islam (a cui è dedicato il n. 3), il cuore del documento resta il n. 4 dedicato agli ebrei che occupa, da solo, circa la metà del testo. L’aspetto quantitativo viene però trasceso da quello qualitativo. La dichiarazione segna infatti una svolta radicale nell’atteggiamento assunto dalla Chiesa cattolica nei confronti degli ebrei. Per comprovarlo basterebbero due motivi, uno interno e uno esterno. Il primo è che, a differenza di tutti gli altri testi conciliari, la Nostra aetate non cita a proprio sostegno alcun documento ecclesiale precedente. Le sue argomentazioni sono basate soltanto sulla Bibbia, prova evidente della millenaria pervasività dell’antigiudaismo cristiano. Dal canto suo l’aspetto esterno è costituito dal grande sviluppo avuto dal dialogo ebraico-cristiano. Un cammino fecondo ma non privo di difficoltà. 

La ragione principale degli ostacoli posti sul percorso dello storico avvicinamento tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo si trova nel fatto che la categoria di religione si adatta in maniera solo parziale al popolo ebraico. Lo stesso riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Santa Sede (1993) si colloca in un ambito non riconducibile né al puro diritto internazionale, né, tanto meno, al semplice dialogo interreligioso. Da qui una serie di punti critici legati, in gran parte, a un vasto, anche se non totale, appoggio ebraico a determinate scelte dei vari governi israeliani, tensione che ha toccato il culmine nel caso della catastrofe di Gaza.

 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025 

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