C’è una triplice urgenza nel nostro Paese, che lega povertà, fame e salute: la malattia impedisce alle persone di lavorare o colpisce la loro capacità lavorativa riducendo il reddito. E la povertà aumenta la possibilità di contrarre malattie o di non curarsi adeguatamente. Dall’altra parte, la povertà alimentare è in aumento.  Si rende, quindi, necessario garantire l’accesso ai servizi essenziali, a partire dalle mense scolastiche. Ne va la salute delle giovani generazioni, quindi il futuro dell’Italia

di padre Augusto Chendi

Un dato inequivocabile e ormai acquisito nel comune sentire è il binomio secondo il quale povertà e malattie sono inestricabilmente legate. Esiste in effetti un rapporto a due direzioni tra povertà e malattia, un circolo vizioso in cui la malattia spesso peggiora lo stato di povertà. La malattia impedisce alle persone di lavorare o colpisce la loro capacità lavorativa riducendo il loro reddito. E la povertà, di converso, aumenta la possibilità di contrarre malattie o di non curarsi adeguatamente, anche per il solo fatto di non potere accedere a servizi sanitari essenziali. Oggi la povertà è la grande urgenza anche del nostro Paese, che rischia di precipitarci rapidamente in uno scenario che pensavamo essere relegato al passato e ad altre aree geografiche: quello della fame. Questa constatazione, mettendo a nudo un quadro allarmante, interpella tutti e, in primis, le scelte politiche da adottare già nell’immediato e nel medio termine.

Sono 5,6 milioni le persone che soffrono di povertà assoluta in Italia nel 2021, registrate dall’Istat e dalla stessa Caritas Italiana, pari al 7,5% della popolazione, che si accompagna alla propagazione della cosiddetta “pandemia silenziosa della fame” in questi anni di difficile congiuntura economica, di emergenza Covid-19 e, negli ultimi mesi, di impatto della guerra in Ucraina. La povertà ha da anni un trend crescente e ha generato in molti nuclei familiari una condizione di precarietà, riducendo e, in alcune zone del nostro Paese, aggravando l’insicurezza alimentare, e cioè la possibilità di accesso ad una alimentazione sana e adeguata, cosicché almeno 5 milioni e mezzo di persone oggi in Italia non possono permettersi di mangiare regolarmente un pasto proteico con carne, pesce o un equivalente vegetariano. Parlare di “povertà assoluta”, secondo il lessico impersonale proprio delle analisi statistiche, non basta a definire la “povertà alimentare”, che è composta da molteplici dimensioni: mancanza di accesso a cibo adeguato e di qualità, stress e stigma che genera il vivere in una condizione di costante bisogno e precarietà, restrizioni delle occasioni sociali legate al cibo, sacrificate dalla mancanza di risorse. Bisogni e vissuti immateriali che producono conseguenze negative e rilevanti anche sul piano del benessere psico-fisico, soprattutto nei più giovani. 

Nel 2022, solo la punta dell’iceberg di questa popolazione di italiani si è rivolta agli enti di assistenza: circa 2 milioni e 856 mila persone, la cifra più alta dall’inizio della pandemia, che però rappresentano la metà di quanti soffrono la povertà alimentare. Restano fuori dalle statistiche ufficiali quanti vivono al limite e rischiano di scivolare verso il disagio economico grave, anche a causa di spese improvvise, aumento dei prezzi, crisi energetica e rincari delle bollette di luce e gas. A ciò si aggiunge il tasso d’inflazione che si abbatte sul reddito reale, riducendo il potere d’acquisto, anche e soprattutto dei generi essenziali, come quelli alimentari, con rincari al + 9,1% a giugno 2022.

La povertà alimentare, purtroppo, è ancora vista solo come una condizione di bisogno. Ma è molto di più: indica vite svuotate di serenità, opportunità, soprattutto per gli adolescenti. A farne le spese in modo diseguale sono i più vulnerabili, le famiglie più numerose, specie se con figli piccoli. Lo confermano anche i dati Istat: il 45,3% delle famiglie in stato di povertà assoluta ha figli minori.

Senza efficaci misure di contrasto all’indigenza, la povertà alimentare continuerà a crescere. Misure come il Reddito di Cittadinanza, la Pensione di Cittadinanza e l’Assegno Unico per i figli e quelle emergenziali del periodo pandemico sono state un utile argine e, con giusti e adeguati accorgimenti, dovrebbero essere rafforzate ed estese per raggiungere tutti quei soggetti più esposti al rischio di povertà, come lo sono, ad esempio, i minori, le persone anziane e gli stranieri. 

In questo quadro si rende necessario garantire l’accesso ai servizi, alcuni dei quali dovrebbero finalmente essere considerati come essenziali, a partire dalle mense scolastiche. Un esempio emblematico è dato dal fatto che nel 2017, nonostante la mensa scolastica rappresenti un importantissimo strumento di protezione sociale e di contrasto alla povertà alimentare, solo il 51% degli alunni della scuola primaria in Italia ha avuto accesso ad una mensa, con disparità enormi nei sistemi di refezione scolastica, rendendo la distanza sempre maggiore tra Nord e Sud, dove si registra il numero più alto di alunni che non usufruiscono di tale servizio. Se si considera che in Italia 1.137.000 bambini e bambine vivono in condizioni di povertà assoluta (dati ISTAT, 2020), l’accesso alla mensa rappresenterebbe la possibilità di un pasto nutrizionalmente adeguato una volta al giorno per cinque giorni la settimana, escludendo il periodo delle vacanze. Il servizio mensa è un servizio pubblico a domanda individuale e i Comuni hanno piena discrezionalità nel garantirlo, rispettando il principio di pareggio di bilancio. Queste differenze si traducono in una differenziazione di trattamento a seconda del Comune di residenza, che finisce per colpire soprattutto le famiglie più povere i cui bambini, in molti casi, si sono trovati esclusi dall’accesso alla mensa a causa delle difficoltà a pagare. 

Negli ultimi anni sono diverse le iniziative legislative, purtroppo arenatesi, che hanno cercato di introdurre l’universalità dell’accesso alla mensa. Per questi motivi, concedere l’accesso universale gratuito alla mensa scolastica, o perlomeno a tutti i minori in condizioni di povertà come livello essenziale delle prestazioni sociali, riconoscendola come servizio essenziale e non a domanda individuale, sarebbe una delle risposte più efficaci per contrastare la povertà alimentare infantile.

Il cibo, è bene ricordarlo, è un diritto umano fondamentale riconosciuto, tra l’altro, nell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani -, oltre a trovare menzione in dichiarazioni internazionali, costituzioni e leggi nazionali. A differenza della sicurezza alimentare – intesa come l’incapacità di permettersi, o di avere accesso a un cibo che permetta una dieta salutare -, il diritto al cibo adeguato è un concetto giuridico che prevede obblighi di tutela da parte degli Stati. Il diritto al cibo stabilisce che ogni individuo, da solo o in comunità, in ogni momento deve avere accesso fisico ed economico ad un sufficiente, adeguato e culturalmente appropriato cibo prodotto e consumato in modo sostenibile, preservandone così l’accesso per le generazioni future. Il diritto ad un cibo adeguato non è, pertanto, il diritto ad essere sfamati, ma quello a potersi alimentare con dignità.

In questo quadro non può essere sottaciuto il rapporto diretto che la povertà alimentare istituisce con la salute, soprattutto nella fase di crescita delle giovani generazioni, che costituiscono il futuro di ogni Paese, il nostro compreso. Fame e malnutrizione, infatti, mentre causano sofferenze incommensurabili a milioni di famiglie, provocano al contempo problemi di salute, perdita della capacità di apprendimento, perdita di produttività e guadagno, alte spese familiari e mediche. In specie, un’alimentazione insufficiente e la mancanza di cibi adeguati possono limitare lo sviluppo fisico e mentale, aumentare il rischio di morte dovuto a malattie infantili e possono dar luogo a menomazioni fisiche e mentali permanenti. La malnutrizione proteico-energetica provoca rallentamenti nella crescita, squilibri nei liquidi e ridotta resistenza alle infezioni, in quanto il cibo non è sufficiente a rispondere alle necessità dell’organismo di proteine, energia ed altre sostanze nutritive. 

Mentre le diverse agenzie pubblicitarie stanno già attuando campagne per gli acquisti alimentari in vista delle prossime festività natalizie e gli stessi territori affinano strategie per promuovere prodotti locali di eccellenza, attardare le sguardo sulla “pandemia silenziosa della fame” non è un esercizio intellettualistico vuoto o artificioso, ma dischiude un’imprescindibile e inderogabile domanda: le politiche di risposta alla povertà alimentare nel nostro Paese sono prese in seria considerazione oppure avvengono in un vuoto di strategia e di comune definizione del problema? Ad una constatazione oggettiva, alla luce anche degli “slogans” programmatici enunciati in occasione della recente consultazione elettorale, non è azzardato affermare che la povertà alimentare è un settore marginale delle politiche sociali, che tende a considerarla più un sintomo che una conseguenza della povertà. L’azione di contrasto appare frammentata, caratterizzata da modelli di intervento diversi e con una varietà di attori coinvolti. Per questi motivi, i vari modelli di assistenza alimentare operanti in Italia possono ingenerare dubbi sulla reale capacità di garantire una risposta “politica” efficace per contrastare l’insicurezza alimentare nel medio e lungo termine, con tutto ciò che questo comporta come ricaduta immediata anche nell’ambito della salute. 

Diversi sarebbero gli ambiti di miglioramento che potrebbero derivare dall’adozione di un approccio strategico al problema, superando interventi di contrasto alla povertà alimentare che non si attivino solo in situazioni di emergenza, ma che siano in grado di promuovere costantemente il diritto ad una alimentazione adeguata. 

Vero è che, in primis, una necessaria ed urgente risposta “politica”, tesa cioè al bene e al progresso del Paese, per evitare una spirale negativa che creerebbe dipendenza dall’assistenza, richiede di invertire la traiettoria sociale discendente, e ricreare le condizioni per la generazione del reddito e dell’autosufficienza; nella maggioranza dei casi, infatti, le persone che si rivolgono alle reti di assistenza sociale cercano essenzialmente un lavoro, ed è in mancanza di questo che chiedono cibo.

Articolo pubblicato su “La Voce” del 2 dicembre 2022

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