In anteprima, una delle opere che da ottobre sarà esposta a Diamanti nella mostra sul Cinquecento 

di Micaela Torboli

Si aprirà il prossimo 12 ottobre a Palazzo dei Diamanti la mostra Il Cinquecento a Ferrara. Mazzolino, Ortolano, Garofalo, Dosso (fino al 16 febbraio 2025, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli). “La Voce” proporrà alcune anticipazioni sulle opere presenti alla esposizione, man mano che esse filtrano, ovviamente salvo cambiamenti e possibili variazioni. 

Tra i quadri che dovrebbero essere presenti a Ferrara si parla della tavola Madonna con il Bambino tra i Santi Lorenzo e Rocco (o Giacomo maggiore) in gloria e i Santi Giovanni Battista, Sebastiano e Giobbe (o San Girolamo) di Dosso Dossi. Richiesta nel 1518 a Dosso dalla Mensa Comune dei Preti del Duomo di Modena per la cappella dei Santi Sebastiano e Rocco, protettori dalla peste, e terminata tre anni dopo, si trova ancora in quella Basilica Metropolitana per la quale fu creata, ma, con breve spostamento, è posta accanto alla scala che porta alla sacrestia. La pala è stata restaurata nel 2021 da Daniele Bizzarri con il contributo di privati, in occasione dei suoi 500 anni, ritrovando le cromie squillanti di Dosso e, sotto alcune ridipinture, sono comparsi due cherubini ed un angioletto. Il quadro era stato ritoccato nel 1844 e pulito  nel 1894, per poi essere restaurato nel 1995 da Pietro Tranchina, ma servivano altri interventi alla tavola, che ne risultava di nuovo bisognosa. 

Su Giovanni Luteri, detto Dosso Dossi, sebbene studiatissimo, c’è ancora molto da dire. Nacque intorno al 1486 nei pressi di Mirandola, forse a Tramuschio, ma il suo nome d’arte ricorda San Giovanni del Dosso (al tempo Dosso della Scaffa), paese nell’orbita mirandolana, oggi in provincia di Mantova. Con i Pico Mirandola fu signoria, in seguito contea, poi ancora principato, e infine salì a ducato per la concessione dell’imperatore Mattia d’Asburgo che giunse però solo nel 1619, quando i vicini Estensi, ormai indeboliti e persa Ferrara, poco poterono per ostacolare i Pico, da sempre loro spina nel fianco; la rivalsa estense sarebbe giunta solo nel 1711, dopo che Francesco Maria II Pico fu deposto (durante la Guerra di Successione Spagnola) e il ducato dei Pico venne venduto dagli Asburgo al duca di Modena Rinaldo d’Este. Quando Dosso si rivelò valido pittore, non furono i Pico a comprenderne i talenti, ma la Mantova di Francesco II Gonzaga e della moglie Isabella d’Este. Essi ne colsero i primi frutti, per un’opera che non è bene identificabile. Correva il 1512, e l’anno seguente Dosso giungerà a Ferrara, presso Alfonso I d’Este, dove la sua carriera, e quella del fratello minore e collega, Battista, prese il volo. Questo periodo è il cruccio degli studiosi del giovane Dosso, perché egli non datava le sue opere, molte carte mancano e si è creata nel tempo una grande varietà di attribuzioni dei primi lavori dosseschi, per lo più mancanti, legate ad anni diversi e disparati. 

Per questo la prima realizzazione saldamente documentata del maestro, ancora esistente, e per di più sita nel luogo originale, è proprio quella di Modena, detta di solito, in breve, Pala di San Sebastiano. Fu eseguita a Ferrara e poi trasportata nella seconda città del ducato. È un cardine per le ricerche sul pittore, che in quel torno di tempo doveva già aver frequentato Venezia, dove Tiziano (quasi suo coetaneo: la sua nascita balla tra 1488 e 1490) dettava legge, imprimendo la sua visione sul nostro. Ma Dosso aveva forse visitato anche Roma, dato che nella Pala di San Sebastiano sono state ravvisate influenze di Michelangelo e Raffaello. Sebbene alcuni studiosi rifiutino la possibilità di questo viaggio, la maggior parte di essi propende per la presenza di Dosso insieme al duca Alfonso I e al seguito, in occasione della incoronazione romana del nuovo papa, Leone X de’ Medici, che cadde nella primavera del 1513. Appena dopo, nel giugno dello stesso anno, il pittore di corte, Martino da Udine (detto Pellegrino da San Daniele, 1467-1547), venne licenziato, e Dosso fu pronto a prenderne il posto, che rimase suo fino al 1542, anno della morte.

Pubblicato sulla “Voce” del 17 maggio 2024

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