16 settembre 2019

Intervista a tutto campo al nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego: Unità pastorali, Giornate del Laicato e Laboratorio della fede, “più attenzione a vita comunitaria ed elaborazione condivisa”. Sisma, la speranza sulle prossime riaperture. Chiesa in uscita: “allargare la responsabilità e la corresponsabilità, creare occasioni di dialogo, uscire da forme superbe di dogmatismo e di giudizio”. La città sarà “salvata” dai giovani. Territorio e polis: “la politica sempre più sinonimo di corporativismo: associazioni e parrocchie diventino ‘laboratori’ dove possa nascere la passione per il bene comune”

a cura di Andrea Musacci

All’alba di un nuovo anno pastorale, il suo terzo da Arcivescovo di Ferrara-Comacchio, mons. Gian Carlo Perego ha accettato di rispondere ad alcune domande, per analizzare il presente della nostra Diocesi e cercare di immaginare il futuro.

Tra progetti e speranze (e qualche piccola amarezza), un confronto che diventa occasione per fare il punto della situazione, spiegare meglio alcuni concetti importanti e ribadire un principio: “la missione chiede di superare l’abitudinarietà, la ripetitività; chiede ascolto e confronto; chiede il coraggio della proposta”.

LA CHIESA LOCALE

Con emozione e preoccupazione, unite alla gioia e alla speranza, inizio il mio ministero episcopale tra voi e con voi, cari fratelli e sorelle della Chiesa di Ferrara-Comacchio”, queste le sue prime parole a Ferrara, il 3 giugno 2017: che comunità diocesana ha trovato al suo ingresso, e come invece possiamo descriverla oggi?

Ho iniziato il mio cammino nell’Arcidiocesi visitando tutti i parroci. E’ stato un incontro che certamente ha segnalato le preoccupazioni (il terremoto e le sue conseguenze, la denatalità, la poca frequenza ai sacramenti – una persona su dieci mediamente -, la fatica delle famiglie, la distanza di molti giovani…), ma al tempo stesso mi ha regalato gioia e speranza vedendo la dedizione, l’impegno e la serenità nel lavoro pastorale dei nostri sacerdoti e dei laici incontrati nelle parrocchie. Da questo incontro è nata la necessità di lavorare pastoralmente insieme, valorizzando gli organismi di comunione a livello diocesano e parrocchiale, guidati in questi tre anni dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium.

Un anno fa veniva ufficialmente istituita la prima Unità Pastorale della nostra Arcidiocesi, quella di Borgovado. Un progetto pensato da alcuni suoi predecessori (Caffarra, Rabitti), ora divenuta realtà concreta. E a breve nasceranno altre Unità Pastorali in Diocesi…

L’unità pastorale è la nuova forma di vita comunitaria che non sostituisce le parrocchie, ma le valorizza dentro un unico progetto pastorale che ha al centro la Liturgia, la catechesi e la carità. La debolezza della parrocchia, di molte parrocchie oggi nell’esercizio dei compiti istituzionali, la solitudine più che la mancanza dei sacerdoti, il numero esiguo di fedeli in alcuni contesti, rendono necessarie forme di vita comunitaria dove valorizzare le diverse età della vita, la collaborazione, i tempi del riposo, la condivisione delle risorse, ecc. Con le unità pastorali sono tre i livelli organizzativi e di vita comunitaria della Diocesi: la parrocchia, l’unità pastorale, il Vicariato. Ad ognuno di questi luoghi corrispondono delle responsabilità pastorali.

Sul laicato di Ferrara-Comacchio: che impressione ha avuto dal percorso dell’anno pastorale scorso (le tre Giornate del Laicato e anche tutti i passaggi di discussione e di elaborazione intermedi)? L’anno prossimo torna il Laboratorio della fede, da Lei sostenuto, e richiesto a gran voce da molte laiche e laici: come si affiancherà e integrerà alle Giornate del Laicato?

La ripresa delle Giornate del laicato ha permesso di avere un luogo di confronto e di elaborazione importante, anche un luogo più ampio del “consigliarsi” nella Chiesa, espressione delle diverse realtà associative e dei movimenti. Il frutto di queste Giornate – che continueranno e affiancheranno anche il lavoro del Consiglio pastorale diocesano – sono state numerose proposte, tra le quali si è scelto di continuare e rafforzare il “Laboratorio della fede”. Il “Laboratorio” è un luogo di formazione, direi quasi un luogo “catecumenale” di riscoperta della propria fede, cercando di legarla alla vita personale e a quella della comunità.

“Questa nostra Cattedrale, la cui facciata coperta oltre che l’interno, portano i segni di sofferenza e le piaghe del terremoto”, sono ancora sue parole all’ingresso in Diocesi: due anni dopo ci troviamo con la Cattedrale completamente chiusa, con altre chiese importanti inagibili (penso ad esempio a San Paolo, a San Domenico, solo per citarne due). La sofferenza, dunque, continua. Qual è la situazione generale in Diocesi?

La sofferenza per la chiusura della Cattedrale e di tante nostre chiese parrocchiali e non continua, ma è unita anche alla speranza che le risorse messe a disposizione dallo Stato attraverso la Regione e, nel caso della Cattedrale, anche dal Ministero dei beni culturali, possano superare i rallentamenti burocratici, che comprendiamo in alcuni casi anche necessari, per velocizzare i tempi della riapertura di beni che sono importanti non solo per la comunità cristiana, ma anche per lo sviluppo economico e culturale, turistico della città. Ferrara non può prescindere, per il suo sviluppo, dalla cura di beni che sono risorse fondamentali oltre che “patrimonio dell’umanità”. Speriamo che nell’arco di due anni possa essere riaperta la Cattedrale e altre venti chiese. Sabato 7 settembre, con grande concorso di folla, ma anche con una significativa collaborazione tra Parrocchia e Diocesi, abbiamo riaperto il Santuario della Madonna della Pioppa a Ospitale di Bondeno, un luogo di fede caro a tutta la zona del ferrarese e del mantovano.

Il prossimo anno pastorale verrà “inaugurato” dal Mese Missionario straordinario e dal Sinodo per l’Amazzonia. Vuole dare un messaggio alla comunità diocesana in vista di questi due importanti appuntamenti?

Il Mese missionario straordinario indetto da Papa Francesco vuole stimolare a considerare la missione una dimensione fondamentale di ogni Chiesa. “La Chiesa è evangelizzazione” scriveva già San Paolo VI nell’Evangelii Nutiandi e ha ripetuto Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium. La missione chiede di superare l’abitudinarietà, la ripetitività; chiede ascolto e confronto; chiede il coraggio della proposta. La missione è compito e responsabilità di tutti nella Chiesa e non passa solo attraverso le parole, ma riguarda soprattutto la testimonianza della vita, gli stili di vita cristiana coerenti. Il Sinodo dell’Amazzonia ci ripropone concretamente la missione attraverso l’attenzione a un luogo di povertà da una parte, ma anche di ricchezza in ordine alla salvaguardia del creato, tema al centro dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Al tempo stesso, il Sinodo dell’Amazzonia propone anche alcuni interrogativi, sui quali rifletteranno i padri sinodali, in ordine alla vita delle Chiese in America Latina.

IL TERRITORIO E LA CITTA’ DI FERRARA

“Guardo a questa città e a tutte le comunità della Diocesi con il desiderio di raggiungere tutti, anche chi è lontano e guarda altrove per trovare le ragioni della propria vita”, spiegava sempre due anni fa al suo ingresso: chi sono i lontani, coloro che “guardano altrove” che ha avuto modo di incontrare in questo primo biennio? A chi pensa in particolare? La nostra Chiesa locale in che modo ha tentato di incontrarli, farsi loro compagni di viaggio?

La categoria dei “lontani”, che richiama un bellissimo testo di don Primo Mazzolari degli anni ’50, è stata ripresa anche da Papa Francesco. Lontani sono coloro che non entrano nelle nostre chiese, non frequentano le nostre comunità, perché non credono più, ma anche perché si sono allontanati per l’incoerenza e la debolezza della nostra testimonianza. Lontani sono pure coloro che si sentono “diversi”, “perfetti” rispetto a chi vive anche del limite, del peccato; e vivono separati, creandosi una loro “chiesa”. Lontani sono anche quelli che si vergognano per una loro situazione di vita e non hanno il coraggio di partecipare alla vita della comunità. Lontano è chi viene assorbito dal lavoro, dallo studio e non ha tempo per altro. Allargare la responsabilità e la corresponsabilità nella missione, creare occasioni di dialogo e di incontro (con i centri di ascolto, il nuovo consultorio, la visita alle famiglia, gli incontri a scuola con gli studenti, la partecipazione a una festa…), uscire da forme superbe di dogmatismo e di giudizio, sono state le iniziative che hanno cercato di più l’accostamento dei lontani.

“La Chiesa è aperta a tutti, con una preferenza per i più deboli, i sofferenti”, disse ancora in quel discorso del 2017. E, ricordo, a partire dalla visita alla Caritas diocesana, e in tante altre occasioni, come non hai mancato di ricordare che la Chiesa – come una madre, come un padre – naturalmente pone un’attenzione particolare – nella sua urgenza e gravità – ai figli che più soffrono (di una sofferenza fisica, psicologica, spirituale, economica ecc.), a chi è solo. Questa sua riflessione – centrale nel magistero dello stesso Papa Francesco – è stata spesso fraintesa o strumentalizzata a fini politici, mediatici, o per mero pregiudizio, dentro e fuori la Chiesa. Perciò le chiedo: si “pente” di aver calcato troppo il discorso sull’attenzione agli ultimi (penso ai migranti poveri e discriminati, ma non solo)? Perché questo suo messaggio non è arrivato a tutti (anche a molti cattolici)? Se potesse tornare indietro, lo comunicherebbe in maniera differente?

Saremo giudicati sull’amore, sulla carità; in Paradiso – lo ricorda Matteo 25 – ci si va così. E’ un’esigenza teologica e non sociologica la scelta preferenziale dei poveri, a cui Papa Francesco dedica pagine molto belle nell’Evangelii Gaudium. E’ un’esigenza faticosa, perché siamo segnati dall’egoismo, dall’individualismo, dalla voglia di avere di più, di lasciare fuori di casa “questi o quelli”, traviati da un’identità intesa come salvaguardia di sé più che apertura all’incontro. Alcune mie parole al riguardo sono state travisate, usate ideologicamente, contrapposte per interessi di parte, tuttavia ciò che ho detto lo ridirei tutto allo stesso modo e, forse, se dovessi ripeterlo – come mi ha suggerito un’anziana ottantenne che ho incontrato in una parrocchia – calcherei ancora di più la mano su questa scelta preferenziale dei più poveri, segno della verità della e nella Chiesa.

Uno sguardo su Ferrara attraverso la lente delle giovani generazioni: una città spesso denigrata da vari fronti, ma che negli ultimi anni è cresciuta in diversi ambiti: penso al mondo degli studenti universitari, ai tanti “poli” in crescita (Spazio Grisù, ad esempio), alle tante iniziative sociali, culturali, dal basso animate da giovani. Senza dimenticare, naturalmente, il fermento – spesso silenzioso – ma vivo e contagioso dei giovani delle nostre parrocchie e delle nostre associazioni diocesane. Insomma, Ferrara sarà “salvata dai ragazzini”?

I ragazzi e i giovani sono il presente, ma anche il futuro della città. Gli universitari, soprattutto di alcune regioni del Sud, sono sempre di più, mentre i nostri sempre meno, alla luce anche della denatalità crescente in città e, soprattutto, nella campagna ferrarese. Una città della cultura, qual è Ferrara, non può che attrarre i giovani e per questo occorre dare largo spazio alle iniziative artistiche, musicali e culturali in genere. Una città dello sport non può accontentarsi solo della grande SPAL, ma – dal CUS ai campi di calcio di quartiere e parrocchiali – promuovere il gioco, rendere sempre vivi alcuni quartieri spenti o occupati da chi ha altri interessi, è una seconda prospettiva importante. Una città ricca di esperienze giovanili nate dalla fede – come i campi IBO, o Mani tese, o Emmaus, o i campi scuola dell’ACI o di altre associazioni e movimenti – e di nuove esperienze di servizio civile, di accoglienza dei giovani provenienti da altri Paesi, di volontariato è una nuova importante prospettiva di lavoro con le giovani generazioni. Cultura, sport e gioco, esperienze di volontariato sono tre luoghi importanti per un lavoro con le giovani generazioni in città, ma anche tre luoghi per coniugare fede e vita cristiana.

160 anni fa nasceva Grosoli, 60 anni fa moriva Sturzo. Cosa manca alla politica italiana (e ferrarese), per riacquistare una fiducia autentica e duratura: figure capaci di sintesi e profondità, radicali e al tempo stesso capaci di essere ponti? Luoghi di formazione e di comunità come un tempo erano ad esempio i partiti?

Ritengo che per creare interesse verso la città, per formare alla politica, serva che alcuni luoghi associativi, le stesse parrocchie, diventino “laboratori” in cui il dialogo, il confronto, le esperienze facciano crescere le persone con “l’interesse” – come diceva don Milani – per il bene comune, con la passione per gli altri. In politica si sta tornando al corporativismo, a difendere i propri interessi, arrivando anche a falsificare la verità su alcuni temi (uno fra tutti l’immigrazione), a dimenticare il cammino che ha portato alla Democrazia nel nostro Paese. Una persona si forma anche alla politica – come si sono formati il nostro Grosoli, don Sturzo, La Pira, Lazzati, Dossetti…- nella misura in cui resta legata a una comunità e antecede – Grosoli ha dilapidato per questo le sue sostanze – il bene comune al bene personale.

Infine, durante questo primo biennio a Ferrara, quali situazioni o parole l’hanno maggiormente amareggiata e quali invece le hanno dato particolare gioia?

Nella nostra vita ascoltiamo parole dure, ma vere, che ci fanno riflettere e ci aiutano a crescere; incontriamo anche parole false, che ci feriscono, soprattutto se nascono dalla volontà di fare il male; incontriamo situazioni difficili per le quali non abbiamo parole e situazioni belle, anche dolorose – come nel recente viaggio a Lourdes – che ti fanno amare la vita, ma anche la Chiesa che sei stato chiamato a guidare. Sofferenza e gioia inevitabilmente si mescolano. Certamente le parole che fanno più male sono sempre quelle false.

Pubblicato sull’edizione de “la Voce” del 13 settembre 2019

Continua a leggere