29 ottobre 2019

A “la Voce” la testimonianza diretta di Carmen Julia Lujan, giovane giornalista inviata a Roma per il Sinodo sull’Amazzonia: “il Papa ha dato ai nativi un ‘microfono’ per parlare al mondo”

di Chiara Fantinato

Ho conosciuto Carmen Julia Lujan, giovane ma tenace giornalista boliviana, nel settembre del 2016. Entrambe svolgevamo attività di volontariato durante il Giubileo della Misericordia. Abbiamo condiviso un’esperienza unica dalla quale è nata una amicizia che supera le distanze geografiche e del tempo. Ora Carmen si trova a Roma per il Sinodo dell’Amazzonia (che si conclude domenica 27 ottobre, ndr) e mi ha rilasciato un’intervista piena di passione e di spunti di riflessione.

Parlaci un po’ di te e del tuo lavoro come giornalista. Quando e dove sei nata?

Sono nata a Cochabamba in Bolivia nel 1982. Quando ho deciso di frequentare la facoltà di Comunicazione Sociale all’Università Maggiore di San Simon non avevo ancora in mente di diventare giornalista. Le prime esperienza di lavoro mi hanno scoraggiata perché il giornalismo nel mio paese di solito si occupa solo di politica, economia, cercando lo scoop e pensando che le persone in posizioni socialmente elevate siano le uniche credibili. Non sono una giornalista che cerca il clamore, ma storie che contribuiscono alla crescita della società. Nel 2014, l’agenzia di stampa Fides (ANF), un’opera della Compagnia di Gesù, mi ha dato l’opportunità di lavorare prendendo spunti da diverse aree tematiche, ma anche, in modo leggermente diverso, dall’ambito ecclesiale.

Perché hai deciso di diventare giornalista? Qual è il giornale per cui lavori?

Col passare del tempo e con l’impiego presso l’agenzia di stampa Fides, ho rafforzato la mia decisione di non essere una giornalista che si occupa di questioni politiche, economiche o commerciali. Stavo scoprendo che mi affascinava l’ambito della comunicazione ecclesiale e che avevo anche la possibilità di esprimere le mie aspirazioni. Ho capito quanto sia importante questo ambito giornalistico per la società e per il mondo.

Tu risiedi in Bolivia. Come vivono I boliviani la loro fede cattolica? E’ difficile? Perché?

Non penso che vi sia una unica figura di cattolico. Non è difficile professare la fede cattolica perché godiamo di libertà di culto, anche se la Bolivia nella sua Costituzione si definisce come uno stato laico. È però anche vero che le comunità cristiane si sono sviluppate e stanno guadagnando un gran numero di fedeli e seguaci.

I giornalisti cattolici trovano problemi nello scrivere della vita della Chiesa in Bolivia?

Dal mio punto di vista non ci sono problemi per affrontare le questioni della Chiesa come giornalisti. La Conferenza episcopale boliviana ha piena libertà di espressione e anche le varie congregazioni religiose.

Ora ti trovi a Roma al Sinodo dell’Amazzonia. Chi hai incontrato?

Con l’agenzia di stampa Fides partecipo al team di comunicazione della Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM), vale a dire diverse istituzioni che fanno un lavoro congiunto per riportare ai nostri rispettivi paesi e al mondo tutto ciò che accade al Sinodo. Qui possiamo anche incontrare altri media di varie parti del mondo, comprese le grandi agenzie. È un’esperienza diversa, che mi sta insegnando molto.

Secondo la tua opinione, perché Papa Francesco ha deciso di convocare questo Sinodo?

Credo che il Santo Padre abbia compiuto un passo molto importante nel convocarlo. I problemi che vivono le popolazioni indigene e l’intera Amazzonia, sono gli stessi della Casa Comune in cui viviamo tutti, sono reali e importanti come quelli che accadono in tutto il mondo. I Popoli dell’Amazzonia, ora sono rappresentati dai loro leaders, sono consapevoli che il Papa abbia dato loro l’opportunità di parlare, di essere ascoltati, di dire quali sono i loro bisogni, di esprimere come vogliono essere trattati e difesi, di dire cosa si aspettano dalla Chiesa e da tutta la comunità mondiale. In Bolivia hanno detto che il Papa ha dato ai nativi un “microfono” per parlare al mondo.

Quali sono le esigenze e i bisogni della Chiesa dell’Amazzonia?

Le realtà della Chiesa di coloro che abitano in Amazzonia sono sempre più ridotte dal punto di vista numerico. Questo a causa della mancanza di vocazioni e perché i religiosi e i sacerdoti stanno invecchiando. A ciò si aggiungono le grandi distanze che devono essere percorse per raggiungere le varie comunità.

Nella maggior parte dell’Amazzonia boliviana non ci sono strade asfaltate e nella stagione delle piogge i viaggi possono richiedere diversi giorni per raggiungere una singola comunità. Ci sono sacerdoti che si occupano di aree corrispondenti a diocesi italiane di medie dimensioni e che riescono a raggiungerle non più di una volta all’anno per le funzioni ministeriali. Pertanto, i sacramenti non raggiungono regolarmente gli indigeni. Ma in molti luoghi c’è l’aiuto di animatori pastorali che collaborano con il sacerdote nell’incontrare le popolazioni.

D’altra parte, i missionari che si trovano in Amazzonia vivono la vita quotidiana delle popolazioni oriunde, li supportano nella lotta per i diritti umani quando i loro territori sono minacciati da compagnie estrattive, da compagnie minerarie, dal traffico di droga e di persone. Molte volte i consacrati ricevono minacce per la loro missione di aiuto agli indigeni.

Raccontaci una tua giornata tipo al Sinodo…

La mia esperienza qui a Roma è unica. Alle 9.00 abbiamo un incontro con il team REPAM per vedere come procedono i nostri rispettivi lavori e cosa ci proponiamo per l’ottimale copertura del servizio giornalistico. Proviamo quindi a incontrare i partecipanti al Sinodo (vescovi, laici, indigeni, specialisti) fuori dalla Sala del Sinodo. Partecipiamo anche a briefing o conferenze stampa. Mi accorgo che la stampa, spesso, è interessata solo alla condizione dei ministri viri probati oppure se le donne possano essere ordinate diaconesse.

A volte, prima di iniziare la sessione pomeridiana, vedo da lontano Papa Francesco arrivare all’Aula Sinodale per continuare i lavori. Mi piacerebbe potermi avvicinare e ringraziarlo perché ho visto a Roma, nella Basilica, la presenza dei miei connazionali amazzonici; ho visto le piume dei loro abiti tradizionali nel mezzo delle celebrazioni e negli incontri come accade a San Ignacio de Mojos (capitale della provincia del Moxos nella capitale del Beni, ndr) o in qualsiasi altra area del mio paese. Questo è motivo di forte commozione per me.

Secondo te quali effetti produrrà il Sinodo dell’Amazzonia in America Latina e in Bolivia in particolare?

Spero che dopo il Sinodo l’organizzazione nella Chiesa Amazzonica cambi per lasciare il posto a una Chiesa che rimane nelle comunità e con le popolazioni indigene. Spero che la conversione ecologica integrale che ci si aspetta da tutta l’umanità possa avvenire non solo nel mio paese o in America Latina, ma in tutto il mondo. Perché la cura del Creato come Casa Comune appartiene a tutti noi e, come dicono i protagonisti del Sinodo, tutto è collegato.

Cosa speri possano fare i Vescovi latino-americani per la Chiesa dell’Amazzonia e particolarmente in Bolivia?

Spero che i vescovi applicheranno le proposte che sono frutto dei lavori dell’Aula Sinodale. Hanno detto che stanno affrontando tutti i problemi che riguardano l’Amazzonia. Credo che vogliano che avvenga un cambiamento a favore di quella regione e non ci si aspetta solo l’impegno dei vescovi, ma di tutta la Chiesa – religiosi, laici – e anche dei non cattolici.

Cosa dovrebbero fare la Chiesa e i cattolici per l’Amazzonia?

Credo che tutti, non solo la Chiesa, dovrebbero prendere sul serio la logica delle popolazioni amazzoniche. Tutto è connesso. Tutto ciò che accade nel nord colpisce il sud e viceversa. Non possiamo credere che la realtà dell’Amazzonia sia diversa dalle altre regioni, abbiamo gli stessi problemi: cambiamenti climatici, corruzione, migrazione, violenza. Siamo in un momento in cui l’umanità non si rende conto della necessità di una conversione integrale per essere in comunione come Casa Comune, con altre persone e con sé stessi.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2019

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