Tanti i modelli positivi già presenti in Italia, oltre il neoliberismo e lo statalismo

di padre Augusto Chendi

Come già è stato approfondito nei precedenti contributi, con il termine Economia Civile si intende principalmente una prospettiva culturale di interpretazione dell’intera economia, fondata sui principi di reciprocità e fraternità, alternativa a quella capitalistica. Ad una constatazione oggettiva, si può affermare che in Italia e nel mondo c’è grande interesse verso questo modello di sviluppo: imprese che fanno della responsabilità sociale un nuovo processo di sviluppo coeso e teso al miglioramento della comunità, giovani che stanno inventando nuovi modelli economici e che mettono al primo posto la relazione fra le persone, esperienze che arrivano dalla finanza etica, dal commercio equo, dall’agricoltura biologica e dalle nuove società benefit che tengono insieme ambiente, rispetto per le persone e visione condivisa sullo sviluppo delle nostre società. 

In questo orizzonte è naturale chiedersi se questo modello inclusivo, partecipato e collaborativo che parte del basso e che rappresenta una valida risposta alla crisi attuale che il Paese sta vivendo, possa avere anche un impatto o possa imprimere una “svolta” nel sentire comune della politica e del suo modello democratico. In attesa di una conferma più ampia e diffusa, una prima risposta affermativa può essere rintracciata già nel recente passato del nostro Paese. E lo si vede in alcuni esempi, come la finanza etica – in Italia la banca etica è nata vent’anni fa e ha raggiunto livelli di notevole interesse -, si pensi poi al mondo delle imprese cooperative di tutti i tipi, all’associazionismo organizzato e ad altre forme associative, ma anche a imprese che stanno adottando o hanno fatto propri i principi dell’Economia Civile.

È risaputo che il cosiddetto Terzo Settore rientra a pieno titolo nel modello dell’Economia Civile, in quanto affronta direttamente il tema della disuguaglianza sociale, che costituisce uno dei grossi nodi irrisolti non solo per il nostro Paese. La recente riforma del Terzo Settore costituisce un avanzamento nel solco della democrazia, perché per la prima volta in Italia si riconosce legittimità giuridica a forme di imprese che non hanno più il profitto come unico scopo o unico fine del proprio ciclo. 

Vero è che l’aspirazione massima è di arrivare alla costituzionalizzazione dell’Economia Civile: oggi la nostra Costituzione, salvo un’eccezione all’art. 43, dice che le forme di intervento sono private o pubbliche, e non si è ancora arrivati a definire forme istituzionalizzate che rispondano alla logica dell’Economia Civile; questa sarebbe una grande modifica della Carta Costituzionale, che senz’altro godrebbe di notevole consenso. Fino ad ora ci siamo retti su questo modello dicotomico stato-mercato, pubblico-privato, ma non c’è solo il pubblico-privato, c’è anche il civile. Renderlo parte integrante della Carta costitutiva della democrazia del nostro Paese, cioè farlo inserire nella legge fondamentale dello Stato, è un traguardo che la politica potrebbe o dovrebbe raggiungere nel più breve tempo possibile.

Questo auspicio, del resto, si rende più urgente anche di fronte alla spinta provocata dall’onda populista in Europa, che sta colpendo non solo la democrazia politica, ma anche il patto sociale che tradizionalmente la sorregge. È un intero meccanismo di rappresentanza dei bisogni collettivi ad essere in discussione, e con esso tutti i corpi sociali intermedi. Ciò interroga sull’impatto che il populismo sta avendo sul campo dell’autonomia sociale organizzata, e sulle possibilità che l’impresa ispirata dall’Economia Civile potrebbe avere per fronteggiare tale deriva.

La principale sfida che il populismo propone in particolare al Terzo settore, ma anche a tutta l’imprenditoria non solo in Italia è, infatti, quella di un ripensamento complessivo del suo rapporto con lo spazio politico, tradizionalmente complesso. Quali sono le ragioni di questa delicata sintesi che deve essere ristabilita per una nuova stagione dei rapporti, in particolare, tra Economia Civile e politica?

La crescita globale della disuguaglianza, l’automazione sempre più accelerata e pervasiva del lavoro, lo sviluppo esponenziale della robotica e dell’Intelligenza Artificiale, la commercializzazione dei dati personali come nuova fonte di ricchezza per pochi monopoli mondiali… sono tutti fenomeni di fronte ai quali manca un’azione politica in grado di gestire efficacemente gli effetti negativi di tali dinamiche. È così in Italia, ma il fenomeno è globale. La manifesta impotenza della politica produce nei cittadini distanza rispetto alle Istituzioni e al loro ruolo. In un circolo vizioso, la percezione che la politica non sia adeguata rispetto ai suoi compiti finisce per renderla ancora più debole nei confronti dei nuovi poteri dai quali i cittadini vorrebbero essere protetti. Ciò innesca un movimento perverso che si autoalimenta, in costante accelerazione.

Se non ci si vuole avvitare in un’indignazione che abbia come unico sfogo una rabbia profonda e distruttiva, genericamente rivolta contro tutte le élite – inclusa quella politica (e dei politici) -, la domanda da porsi è come restituire alle Istituzioni della democrazia il potere di riequilibrare il rapporto, oggi soccombente, con le forze dell’economia e della tecnologia. Con questo non deve perdersi di vista una questione fondamentale, ovvero che per ristabilire la fiducia nelle Istituzioni pubbliche di rappresentanza collettiva occorre misurarsi con la percezione che in molti oggi hanno di vivere un gioco in cui il benessere di pochi è pagato dalla precarietà esistenziale della maggioranza. 

È la sensazione di trovarsi a far parte di una massa di “perdenti”, per i quali le aspettative riguardanti il futuro hanno interiorizzato un senso di impoverimento che, sebbene non coincida con le statistiche patrimoniali, comunque incide sugli stati d’animo e implica scenari che inducono a pessimismo. Tanto più in quanto l’incertezza e il senso di perdita di controllo sul proprio futuro non riguardano soltanto la situazione economica delle persone, ma anche la loro prospettiva lavorativa, lo status sociale, e persino le condizioni individuali di salute. Vittime, così, di uno svantaggio cumulativo o d’insieme in cui alle difficoltà economiche si è sommato un peggioramento delle condizioni familiari, delle prospettive di crescere i figli, della capacità di tenere il passo con l’evoluzione tecnologica. Dunque, una crisi che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza individuale e alimenta un rancore nei confronti dell’intera società.

Per sua stessa natura, infatti, la rivendicazione di una supposta superiorità dell’approccio di mercato ha esteso i propri effetti molto oltre la pura sfera economica. L’imporsi di una visione neoliberista dell’economia ha plasmato a propria immagine la società trasformandola in una “società di mercato”, con il risultato di produrre un assetto sociale fondato sullo scambio regolato dal principio mercantile dell’auto-interesse e, in tal modo, è stata emarginata anche la rappresentazione “sociale” e politica della società, costruita in lunghi decenni attorno ad un sistema di meccanismi che hanno contribuito a creare un comune sentire democratico, fondato su una riduzione delle disuguaglianze e sulla mediazione istituzionale dei conflitti, originati dalla provenienza da diverse categorie culturali e sociali. 

Come effetto cumulato dei processi ora descritti, la de-socializzazione della società slitta nella sua de-politicizzazione. L’indebolimento dei legami sociali si riflette in comportamenti politici sempre più erratici e imprevedibili. Questi a loro volta aumentano la fragilità della democrazia, esposta a ondate irrazionali di reazioni difensive, declinate in forme diverse di chiusura nazionalistica e di esaltazione populistica. Complice anche la percezione da parte dei cittadini di una perdita di rilevanza dell’azione politica. 

In tale quadro, ciò che conta davvero è riacquistare una capacità di orientare lo sviluppo economico, tecnologico ed ecologico, elaborando le idee e le azioni necessarie per contrastare il sentimento di vulnerabilità che definisce la nostra come una “società a rischio”. Senza un impegno in tale direzione, affidare ai soli meccanismi delle riforme istituzionali il compito di ricostruire il rapporto tra cittadini e politica è una scommessa destinata ad essere persa. Specialmente in una situazione, come l’attuale, di continua esposizione ai sentimenti di insicurezza, che nascono da un’economia che crea disuguaglianza, su cui la grammatica istituzionale e politica non sembra avere alcuna presa.

Le riforme, tanto auspicate anche sul versante economico oltre che politico, perché abbiano efficacia non possono fare a meno di un nuovo patto sociale e culturale, alla base del quale occorre una visione dello sviluppo, che sappia misurarsi con i problemi della disuguaglianza e dell’inclusione sociale, bilanciando al contempo interessi individuali e collettivi. 

La riforma politica, dunque, non può fare a meno di una riforma dell’economia e, in questo quadro, la proposta dell’Economia Civile e dei principi che la contraddistinguono possono apportare un valido contributo, svolgendo un ruolo di rilievo nel ridefinire un paradigma di sviluppo capace di far fronte ai limiti dell’azione dello Stato e del mercato. Quello dell’Economia Civile, pertanto, è un settore che oggi andrebbe considerato con molta attenzione, per la capacità che sta dimostrando di sperimentare, di aprire nuove frontiere, di mettere a punto strumenti innovativi, soprattutto in direzione di uno sviluppo in grado di coniugare valori sociali e sostenibilità economica e ambientale. E tutto questo, dando altresì corpo ad una visione che può generare l’effetto non trascurabile di restituire alla politica democratica il proprio ruolo, in quanto luogo della sintesi tra molteplicità di interessi e perseguimento del bene comune.

(Le precedenti riflessioni sull’economia civile sono uscite sulla “Voce” del 17 novembre 2023, 15 dicembre 2023 e 19 gennaio 2024)

Pubblicato sulla “Voce” del 23 febbraio 2024

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