17 dicembre 2019

Fino ad aprile Palazzo dei Diamanti ospita la personale del pittore barlettano divenuto celebre a Parigi

Un viaggio agli albori della modernità, tra paesaggi incontaminati e maestose metropoli europee.

A compierlo, in pochi decenni, è stato il pittore barlettano Giuseppe De Nittis (Barletta, 25 febbraio 1846 – Saint-Germain-en-Laye, 21 agosto 1884), “ospite” a Palazzo dei Diamanti a Ferrara fino al prossimo aprile. Si tratta dell’ultimo progetto espositivo prima dell’avvio del cantiere che riqualificherà le sale espositive e il giardino interno, e che obbligherà alla chiusura fino al 2021 o ’22.

Un motivo in più per godersi questi capolavori, inaugurati il 1° dicembre nella mostra dal titolo “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, organizzata in collaborazione con il Comune di Barletta, e a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi (conservatrici delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara) e Hélène Pinet (già responsabile delle collezioni di fotografia e del servizio di ricerca del Musée Rodin di Parigi). Un’interessante esposizione che mette bene in risalto la capacità dell’artista di indagare la nascita di un’epoca, lo sviluppo delle moderne città: anche per questo, le curatrici hanno scelto di porre l’accento sulla correlazione tra le opere di De Nittis – davvero innovative – e la tecnica fotografica.

Attraverso un raffinato e lirico realismo, l’esposizione di Diamanti inizia con paesaggi deserti, sfocati e malinconici, dove la nebbia li rende come cristallizzati, eterni, atemporali. La modernità incombe, però, inesorabile, e sarà lo stesso De Nittis a cercarla e raggiungerla: nel 1867 si traferisce a Parigi (mirabile l’opera “La traversata degli Appennini – Ricordo”) dove due anni dopo sposerà Léontine Lucile Gruvelle. La capitale francese, come quella inglese, sono rappresentate perlopiù in tele dove a dominare sono cieli piovosi, brumosi, grigi, d’argento e di fumo. Paesaggi anche campestri, immersi in una foschia perlacea, diafana – solo a tratti e timidamente rosacea o color ruggine. Fumo e nebbia, dunque, “fog&smog”, ad addormentare l’atmosfera urbana, diluendo edifici e persone, invadendone fin le figure, donne e uomini “distratti” – come in “Westminster” (1878) -, apparentemente incapaci di ammirare quella luce rossa fioca del tramonto, che in lontananza cerca di emergere come in una visione. “Formicolante città – cantava Baudelaire in “I sette vecchi” -, città piena di sogni, ove lo spettro in pieno giorno adesca il passante! […Città dove] ingigantite dalla nebbia le case avevan l’aria d’argini fiancheggianti un fiume gonfio”.

Proseguendo nel percorso insieme a De Nittis, man mano i paesaggi, urbani e non, si fanno, da una parte, sempre più rappresentativi del moderno – nelle architetture, negli abiti -, dall’altra, più nitidi e solari, segni forse dell’incontenibile ottimismo del progresso. In una Parigi non più nebbiosa, ma pur sempre umida e soverchiata di nuvole, o in una soleggiata Londra, è come se la moderna architettura urbana volesse imporsi allo sguardo, uscendo dalla foschia del passato, dell’antico, lasciandosi alle spalle quella romantica nostalgia che confonde, ottunde, quasi acceca, per presentarsi in tutta la sua sfacciata e disincantata novità, fatta di pesante perfezione.

I cantieri, in alcune opere, sono segno di questa continua costruzione, di un erigere strutture su strutture, simbolo concretissimo della nascita e dello sviluppo della città moderna, lanciata verso il XX secolo: uno sguardo sulla sua ossatura – le impalcature -, sul suo germinare dall’acciaio e dal vetro.

Ma quasi fosse una reazione, una fuga (o un semplice vezzo?), sempre dalla fine degli anni ’60 si nota in alcune opere del pittore barlettano un richiamo a certo naturalismo giapponese, etereo e sognante: i paesaggi, più o meno nevosi, con le loro montagne e laghi, e anche alcuni paesaggi urbani, sembrano voler smorzare la freddezza dell’urbanità di fine secolo, la sua industrializzazione, dando anche maggior risalto alla figura umana, con primi piani femminili.

Volti e corpi di donne che sono centrali nella fase successiva, dalla seconda metà degli anni ’70, quella degli interni, raffinati ambienti artificiali (a parte le ricche composizioni floreali), fin sensuali, caldi in una penombra misteriosa, intorpidita e quasi sonnolenta. Sono donne dalle pelli biancastre, o meglio, perlacee, decisamente meno vestite rispetto ai gelidi dipinti di esterni, con eleganti abiti e corpetti alla moda, ciprie e ventagli, lussuose collane e graziosi bracciali.

Sfarzo che forse raggiunge il suo apice nelle opere ambientate negli ippodromi: dopo gli angusti e intimi spazi interni, un ritorno all’aperto, in ambienti ariosi ma dove la natura, sempre più domata, è rappresentata dai cavalli di razza in gara. L’equino, simbolo di glorie antiche è, nelle opere di De Nittis, trasformato in orpello, posto sullo sfondo di questa grande sceneggiata della modernità, in questa rappresentazione teatralizzata dove a interessare è l’eleganza e il compiacimento nello sfoggio dei propri ingombranti cappelli, dei propri abiti alla moda.

Così, l’ultima parte dell’esposizione è dedicata alle realizzazioni “en plein air”, dove tutto si fa massimamente lucente e spensierato, ormai lontano dalle nebbie delle città polverose e indaffarate: ora a dominare sono i dolci pastelli luminosi e vivaci, quei colori “virginali” – oro, bianco e celeste – che pare quasi di vedere anche nel “bianco e nero” dei due commoventi filmati dei fratelli Lumière, del 1895 e del 1900: in uno, un padre imbocca il figlioletto neonato sotto lo sguardo amorevole della madre, nell’altro, una bimba seduta gioca con un gatto. Lo sguardo della tecnica, d’ora in poi, invaderà sempre più il reale: De Nittis l’aveva compreso, riuscendo a interpretarlo con originale sensibilità, dote tipica dello sguardo “rivoluzionario” dell’artista.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 dicembre 2019

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