Aneddoti di Maurizio Musacchi, tuttofare al Comunale di Ferrara dagli anni ’60 agli anni ’80. Fra gli altri incontri, Mariangela Melato, Ugo Tognazzi, Rossella Falk e Giorgio Albertazzi

di Maurizio Musacchi

Per diversi anni lavorai al glorioso Teatro Comunale di Ferrara: allora – parliamo degli anni ’60, ’70 e ’80 – i più grandi artisti teatrali (opera, teatro, cinema, canto, balletto classico, grandi monologhisti) venivano ad esibirsi al Comunale.

Ebbi modo di conoscere tantissimi grandi attori del tempo. Molto popolari perché recitavano quasi tutti nel cinema, ma soprattutto in tivù.

La prima volta che fui impegnato in qualità di “servo di scena” (non mi piaceva il nome e chi mi chiedeva che facessi, dicevo che ero “aiutante di scena”) al Comunale di Ferrara fu nel 1967 (ai tempi Direttore era Mario Paoli) in occasione de “La Monaca di Monza” di Luchino Visconti, con Sergio Fantoni, Lilla Brignone, Luca Ronconi e, tra gli altri, una giovane Mariangela Melato. Cercai di fare amicizia con quest’ultima, all’epoca giovane “attricetta”, chiedendole se aveva origini di Rovigo, data la desinenza finale del cognome. Tutto finì lì, la corte all’”attricetta” mi andò buca.

In “Re Lear”, con la regia di Giorgio Strehler, e interpreti principali Tino Carraro, Ottavia Piccolo, Renato de Carmine. Quest’ultimo, da una botola, aperta in mezzo la scena, interpretava una parte drammatica. In scena era cieco con del nero attorno gli occhi realizzato con turacciolo bruciacchiato, poi cosparso: l’effetto era molto impressionante. Io tenevo stretto uno sgabello, sotto, ove l’attore era in piedi. Scena tragica, verso il pubblico impressionato da tal veduta e recitata tanto funestamente. Ebbene, ci eravamo messi d’accordo con un tale che aveva una radiolina ove trasmettevano una partita importante della Roma. Lui, tra un tratto recitato con foga e l’altro, metteva furtivamente la resta sotto chiedendomi: «Ma che sta facendo la Roma?».  

In quegli anni mi capitò di vedere davvero centinaia di attori, e non notavo mai un suggeritore, anche se sempre c’era qualcuno, dietro le quinte con un copione. Solo Paolo Stoppa, molto vecchio, aveva un rammentatore che lo imbeccava spesso.

Un altro milanista, col quale scambiai qualche battuta da interista, quale sono, fu Ugo Tognazzi. Recitò ne “L’Avaro” di Moliere e l’anteprima, con diversi giorni di prove, fu proprio a Ferrara.

Conobbi, poi dopo l’apprezzai e divenne uno dei miei cantautori preferiti, Francesco Guccini. Eravamo nello stanzone ove c’era un distributore di bevande e qualche sedia ove le maestranze si riunivano nei momenti di pausa. Arrivò un tipo (non lo conoscevo allora) vestito alla buona, con pantaloni di velluto e camicia a scacchi. Si parlò del più e del meno, poi se ne andò in scena: era Francesco Guccini. In quel tempo, il mio lavoro principale era autista di scuolabus all’Istituto Agrario Navarra. Un certo allievo – Donà – siccome collaborava con una delle radio locali ferraresi del tempo, mi domandò, giorni prima, sapendo del mio impegno al Comunale, come poter intervistare Guccini. Mi fu risposto da un suo collaboratore che era sufficiente presentarsi in camerino, alla fine dello spettacolo, con una buona bottiglia di vino. Così fece e riuscì nell’intervento e mi fu grato…a vita.

C’era un po’ di specie di cameratismo, dietro le quinte, quasi tutti gli attori ti davano del “tu”. “Quasi” tutti. Una sera, Carla Fracci, concentratissima, prima d’andare in scena, camminava nervosamente dietro le quinte. Un tecnico del teatro, piuttosto rozzo, a dire il vero, disse una frase un po’ volgare. Io gli dissi che non era il caso di essere così grezzo al cospetto di quella che era considerata una delle più grandi artiste del mondo. Lu mi guardò, e rispose villanamente in dialetto. La Fracci l’apostrofò indispettita dicendo: «Guardi che io sono milanese e il suo dialetto lo capisco bene, fulminandolo con lo sguardo». Lo zotico, fece spallucce e se ne andò.

La Fracci venne diverse volte al Comunale. Una di queste, fui incaricato di salire molto in alto sopra il palcoscenico. Ad un segnale, dovevo far scendere coriandoli su lei che ballava con Amedeo Amodio, mi sembra di ricordare. Io, terrorizzato dalla posizione, ove ero, piuttosto terrorizzato, non vedevo l’ora di finire e vuotai il contenitore di coriandoli in fretta e furia.

Poco dopo, alla fine degli applausi, Carla Fracci uscita di scena esclamò stizzita: «Ma chi era quel […!] che ha fatto scendere i coriandoli?! A momenti mi affogavo, non riuscivo più a respirare». Nessuno disse nulla, per fortuna. Io però non ero tanto tranquillo…

Sempre quel bel tipo, era pure un po’ “maniaco sessuale”. Sapeva che Rossella Falk avrebbe recitato, un atto di commedia della quale non ricordo il titolo, a seno nudo. Per nascondersi ai tecnici, s’era fatta fare un specie di separé che la nascondeva alle maestranze, pur presentandosi al pubblico a seno scoperto. Evidentemente gli occhi di chi paga il biglietto permettono “licenze” non concesse ai lavoratori dello spettacolo. Il tipo, pur essendo corpulento, per vedere ciò che non avrebbe dovuto, si arrampicò su una delle ripidissime scale laterali il palcoscenico. L’anno dopo, Rossella Falk, recitò di nuovo, non ricordo se era la stessa commedia, fatto sta che lo fece seminuda e senza accorgimenti.

Ebbi la fortuna di vedere e sentir recitare, una delle sue ultime volte, anche Eduardo de Filippo.

Di Giorgio Albertazzi ricordo una cosa un po’ piccante. Non mi ricordo la commedia. Recitò un monologo, piuttosto lungo, con una bellissima donna completamente nuda, stesa su una specie di catafalco. Diciamo che il famoso “maniaco” era seduto, dietro le quinte, che si guardava lo…spettacolo.

Severino Gazzelloni, uno dei più grandi flautista dell’epoca, mi pregò di stare in camerino a guardia del suo flauto d’oro, mentre si era assentato qualche minuto. Disse che a Napoli gli fu rubato.

Infine, il grandissimo pianista Maurizio Pollini, durante le prove prima dello spettacolo ci fece impazzire perché sentiva un piccolo rumore che lo disturbava. Poi scoprimmo che era un orologio a muro, che col suo piccolo tintinnio, ritmato a secondi, non combaciando col ritmo delle note che l’artista leggeva, lo facevano andare fuori tempo. Fummo costretti a spostare l’orologio in un ufficio lontano.

Articolo pubblicato su “La Voce” del 7 ottobre 2022

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