La dignità è inerente a ogni persona e quindi non graduabile: la vita umana resta sempre vita accanto a vite, relazione, fonte e donatrice di significati, anche quando non ne sia più percettrice. Dimenticare ciò è precipitare nell’assurdo

di don Augusto Chendi*

Per loro definizione, le cure palliative accettano la morte come evoluzione inevitabile del decorso delle malattie e come chiusura della vita biografica. Accettare la morte significa non cercare di prolungare inutilmente una sopravvivenza a tutti i costi, ed è quindi chiaro che l’obiettivo che si pongono le cure palliative è migliorare la “qualità” della vita e del percorso che accompagna queste persone ammalate all’inevitabile e naturale decesso. Ovviamente le cure palliative non sono limitate alla fine della vita, ma sono applicabili in qualsiasi momento del percorso di malattia, anche se, ovviamente, la maggior parte del loro impegno è nelle fasi di maggior progressione di malattia, estendendosi anche alle fasi avanzate di malattia, come ad esempio nelle patologia cronico-degenerative. Inoltre, esse non sono rivolte solo ai malati, ma anche alla loro rete di affetti, innanzitutto alla famiglia e ai caregivers (assistenti sanitari). Pertanto, vanno seguite con attenzione specifica al tessuto culturale e valoriale in cui il percorso di malattia avviene.

Davanti a questa crescente capacità d’intervento clinico-farmacologico, che può però condurre anche a un tempo più prolungato e logorante di malattia, qualcuno giunge a ritenere plausibile l’opzione dell’eutanasia in casi di particolare sofferenza. L’eutanasia consiste nel chiedere al medico di porre fine alla propria vita, quando non riesce più a guarire o quando la convivenza con la malattia diventa troppo onerosa. In una tale richiesta è in gioco l’interdetto fondamentale che struttura la convivenza sociale: non uccidere! Il “non uccidere” è un pilastro fondante di ogni società che garantisce uno spazio di convivenza e di relazione. Permette, cioè, di dare fiducia sufficiente all’altro, affinché la vita possa mantenersi, e struttura quindi la convivenza sociale. Eliminare il “non uccidere” rende impossibile la convivenza, e questo è soprattutto vero nelle condizioni di maggiore fragilità e vulnerabilità che si costatano soprattutto nella patologia cronico-degenerativa od oncologica in fase terminale, ma che in fondo sottostà alla malattia in quanto tale e, quindi, è propria di tutti. Il diritto alla vita è un diritto fondamentale. Rispettarlo nelle zone marginali e conflittuali esprime la capacità di una società di custodire la convivenza.

Mettere in questione questo interdetto, cioè qualcosa che si dice tra esseri umani (“inter-dicere”, ovvero “detto fra”), mette alla prova la dignità della persona, perché significa sostenere che esistano delle vite umane non degne di essere vissute. Per questo, permettere che venga data la morte, trovare motivi per abbreviare la vita dell’altro, è in realtà una questione che riguarda il riconoscimento della dignità in situazioni difficili. 

Questo naturalmente ha un riflesso anche sul modo in cui soggettivamente ciascuno percepisce il proprio essere degno, e che potremmo esprimere in termini di stima di sé. Se, per un verso, siamo convinti che la dignità sia inerente a ogni persona e pertanto non sia graduabile, in quanto non dipende dallo stato di salute, dalle condizioni economiche, di “razza” o di educazione – come dice la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’eco della quale ritroviamo anche espressa nella Carta Costituzionale del nostro Paese – dobbiamo, per altro verso, considerare che c’è anche un’esperienza vissuta della dignità. Quindi si possono dare eventi o condizioni che, pur non togliendomi in senso stretto la dignità, ne diminuiscono tuttavia la percezione che ne posso avere: nulla e nessuno me la può togliere, ma può accadere che io non riesca più a sentirla effettivamente come capace di alimentare la stima che ho di me stesso.

Se poi ci si pone nella prospettiva della pratica clinica, l’ipotesi dell’eutanasia, o del fornire all’altro gli strumenti perché possa suicidarsi, provoca uno slittamento dei fini e dei compiti che la medicina ha sempre perseguito. Il suo specifico obiettivo è infatti quello di rispondere alla malattia.

Come emerge con più evidenza in ordine alle cure palliative, il criterio di valutazione dei trattamenti clinico-farmacologici consiste nell’essere commisurati a ripristinare la salute al miglior livello possibile e ad alleviare le sofferenze, in modo che la vita possa essere percepita dalla persona come accettabile, anche qualora la malattia fosse inguaribile. 

La medicina ha quindi come oggetto proprio della sua azione la validità dei trattamenti. È questo l’ambito in cui ha competenza. Operare interventi che riguardano la durata della vita stessa quando il paziente chiede di dare una risposta alla propria sofferenza provocando la morte, implica una presa di posizione sul senso della vita e della morte. In tal modo, la medicina oltrepasserebbe i confini che le sono propri, svolgendo un compito che è in realtà affidato alla cultura umana nel suo complesso, con tutte le risorse relazionali, simboliche, comunicative, artistiche e religiose che sono proprie di ogni specifica società. Va quindi precisato con chiarezza il contenuto delle decisioni mediche: esso riguarda i trattamenti e le cure, non il senso della vita e della stessa condizione mortale che caratterizza l’esistenza umana. Elaborare il senso della vita e della morte è un compito a cui la medicina può certo a suo modo contribuire, ma non ne può detenere l’esclusiva, neanche in situazioni di particolare difficoltà. 

È un’impresa alla quale sono chiamate l’intera società e la cultura, e che costituisce il contesto in cui la medicina si esercita. Per questo, il medico e l’équipe sanitaria non possono essere coinvolti nella decisione di allungare o di abbreviare la vita, sebbene sia chiaro che valutare e decidere sui trattamenti comporti anche effetti sulla durata della vita. Il compito è quindi quello di custodire e di proteggere la vita in una logica di prossimità responsabile, e questo ci conduce ad escludere la logica dell’eutanasia e del suicidio assistito, mentre è lecito e rappresenta un giusto problema domandarsi se e quando sospendere, ridurre o non iniziare dei trattamenti, anche di sostegno vitale, o intraprendere, e secondo quali modalità, il delicato percorso degli interventi afferenti alle cure palliative.

Occorre perciò valorizzare stili di vita e di relazione che non fuggano dalla fragilità, ma assumano l’evidenza del progressivo declino a cui tutti siamo sottoposti e che la medicina contemporanea – come attesta il caso emblematico delle cure palliative – rende paradossalmente sempre più necessari, perché prolunga il tempo di convivenza con la malattia. Un’elaborazione di questa natura non può essere frutto di un impegno individuale. È un cammino da condividere e da apprendere insieme.

Conseguentemente, ci si avvede che per una esatta valorizzazione e utilizzo delle cure palliative e, per ciò stesso, come alternativa alle richieste di eutanasia o di sospensione di ogni tipo di trattamento, serve rielaborare una proposta sul senso della sofferenza e della finitudine, serve – in una parola – la dimensione della speranza e della solidarietà.

Il limite è costitutivo della nostra esperienza umana, ma proprio perché siamo esseri finiti, contingenti, mortali, siamo esseri relazionali, bisognosi cioè, per conquistare la nostra identità, dell’essere-con-l’altro. Qui si colloca la nostra dignità: nel nostro appartenere alla “famiglia umana”, nel nostro essere costitutivamente uniti a tutti gli altri uomini da vincoli che, anche volendo, non potremmo mai rescindere, nel nostro trovare nel volto dell’altro non certo la risposta ultima alle domande di significato che – consapevolmente o inconsapevolmente – continuamente ci poniamo, ma la certezza che lo stesso porre queste domande non è privo di senso. Ecco perché la vita umana resta sempre vita accanto a vite, fonte e donatrice di significati, anche quando non ne sia più percettrice.

Attualmente, però – ed è un’amara costatazione -, l’allentamento dei legami sociali priva la sofferenza di uno spazio in cui possa essere espressa e condivisa, quindi diventa esperienza di solitudine da non potersi comunicare. Vige un mutismo che è inibizione del pensiero e paralisi dell’azione: silenzio di fronte agli altri, cui corrisponde il silenzio degli altri, la loro incapacità di comunicare un senso della sofferenza e di ristabilire una comunione. Una sofferenza grave e non compensata, nel chiudere l’individuo su sé stesso, e nel rescindere i suoi legami con il tutto, determina con ciò la dissoluzione del senso, il precipitare nell’assurdo. In questa debolezza di legami, le esperienze di passività estrema a cui conducono alcune patologie vengono lette come assurde e non come richiamo ad una relazione più radicale e ad una responsabilità maggiore, nutrita di rispetto e di servizio. La sofferenza accende domande che implicano risposte metafisiche, cioè la capacità di cogliere l’essenziale e l’originario che ci unisce. 

Queste risposte possono essere veicolate nel dialogo e nel coinvolgimento esistenziale, al fine di comunicare tranquillità interiore e speranza. Di fronte alla sofferenza serve un impegno benevolente, un aiuto pratico, ma anche uno sforzo riflessivo che è frutto di una ragione non solo calcolante e strumentale, bensì aderente alla vita e capace di cogliere il bene comune, cioè – come già Platone affermava – «la misura esattissima di tutte le cose» (Politico, fr. 2). 

* Direttore Ufficio diocesano Pastorale della Salute

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 maggio 2025 

(Il primo dei due articoli sul tema è uscito sulla “Voce” del 4 aprile scorso)

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