23 settembre 2019

Il 2 e 3 ottobre (insieme all’ultimo appuntamento del “Tempo del Creato”) è in programma a Ferrara il XXIV convegno di teologia della pace. Un dialogo su ecologia, mitezza e nonviolenza, ricordando mons. Mori e Alberto Melandri, alla vigilia del Sinodo per l’Amazzonia

di Piero Stefani

In questi anni si parla, giustamente, molto di ecologia. Lo si fa perché si avverte un crescente senso di pericolo: la «casa comune» scricchiola. Non cessano neppure le voci che additano le prassi nonviolente come le uniche vie che consentiranno alle società umane di convivere. Eppure queste ultime preoccupazioni non sembrano godere di altrettanta eco. Ancora meno presente è la scelta di coniugare assieme i due fattori: nell’ambito del Friday for future non è frequente sentir parlare di disarmo o ascoltare denunce in relazione alla «terza guerra mondiale a pezzi»; fermo restando che la portata della nonviolenza è più ampia e penetrante del discorso, pur fondamentale, dedicato agli armamenti.

L’ideazione del XXIV convegno di teologia della pace è partita proprio dalla volontà di proporre qualche riflessione capace di collegare ecologia e nonviolenza. Pensare alla mitezza è apparsa la pista migliore per farlo. Agli orecchi di molti risuona il messaggio della terza Beatitudine: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). Che il senso originario del testo non avesse un significato direttamente ecologico è un’ovvietà; tuttavia nel rileggerle oggi, le parole di Gesù assumono, non impropriamente, anche questo significato. O, quanto meno, la situazione attuale ci sollecita a sollevare questioni che la ripetizione della frase evangelica ha spesso depotenziato: chi sono i miti? A loro quale terra è stata promessa in eredità? Parlare di creazione comporta individuare un punto di incontro tra l’opera di Dio e la custodia del «giardino» affidata agli esseri umani; il creato non è però una realtà che ci sta solo alle spalle, esso si colloca anche davanti a noi; l’attuazione della promessa relativa alla terra implica anch’essa una forma di cooperazione umano-divina?

I miti, i poveri, gli sfruttati, gli umiliati, gli ultimi sono soggetti di una promessa umanamente irrealizzabile? Scriveva Berthold Brecht: «Che tempi sono questi, quando discorrere di alberi è quasi un delitto perché comporta il silenzio su troppe stragi?». La nostra epoca è diversa dalla sua. Oggi si dovrebbe trascrivere la frase in questi termini: «Che tempi sono questi nei quali bisogna discorrere delle stragi degli alberi perché non cada il silenzio su altri delitti?». Il punto centrale della questione è costituito dal perno su cui ruota l’enciclica Laudato si’: la cura della «casa comune» implica in maniera inscindibile sia l’aspetto relativo al creato sia quello connesso alla società vista soprattutto in relazione alle sue componenti più deboli. Non è un caso, come ribadisce più volte papa Francesco, che siano i poveri i primi a patire le conseguenze più devastanti dei disastri ambientali.

«Casa comune» è espressione applicabile anche a una dimensione più ristretta, persino cittadina. È anche in questo spirito che il convegno ricorderà due figure, una religiosa e l’altra laica, alle quali Ferrara deve molto: mons. Elios Giuseppe Mori e Alberto Melandri.

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