Fino al 2 ottobre l’esposizione di Giovan Francesco (e del fratello)

di Micaela Torboli

Il Palazzo della Gran Guardia di Verona si affaccia sulla Piazza Bra, accanto all’Arena, prospicente il Liston, che, come a Ferrara, è tappa quotidiana delle passeggiate cittadine: ideato nel Seicento per scopi militari, oggi è dedicato alla cultura, ed ospita, fino al 2 ottobre 2022 la mostra Caroto e le arti tra Mantegna e Veronese, a cura di Francesca Rossi, Gianni Peretti e Edoardo Rossetti. 

Il pittore Giovan Francesco Caroto (1480 circa-1555) portava un cognome insolito che resta impresso, ma in realtà non era quello originario. Giovan Francesco ed il fratello Giovanni, anch’egli artista, provenivano da una famiglia lombarda, ed erano nipoti del prete Stefano de Baschis da Caravaggio, cappellano del monastero di Santa Maria in Organo di Verona, cittadino veronese dal 1499. Accolse in città i parenti, e i due nacquero forse proprio a Verona, dove il loro padre acquistò una spezieria con l’insegna “Al Caro” (o “Charro”), da cui Caroto. Gli inizi di Caroto pittore non sono chiarissimi, anche se l’impronta del suo maestro Liberale da Verona, ma soprattutto di Andrea Mantegna, pittore di corte dei Gonzaga (a Verona si trova tuttora la sua smagliante Pala di San Zeno, terminata nel 1460, prima della scelta di stabilirsi a Mantova), traspare nettamente fin dalla prima opera nota di Giovan Francesco (firmata, 1501), che testimonia però di un artista già completo. Si tratta della Madonna cucitrice, un piccolo olio tu tavola (48×39 cm) della Galleria Estense di Modena, che rappresenta Maria mentre regge l’ago, ed il Bambino giocosamente solleva un lembo del velo che Lei porta sulla testa. San Giovannino assiste alla scena a bocca aperta. È un tema raro, affrontato già da Andrea Mantegna in un quadro ora alla National Gallery di Londra. Si tratta di una “Madonna operosa”, come Maria che tesse, o regge fuso e conocchia. L’opera esposta a Verona appartiene alle collezioni modenesi perché proviene da una collezione illustre, quella della famiglia Obizzi, strettamente legata a Ferrara e agli Estensi, ai quali l’ultimo della casata, nel XIX secolo, lasciò una cospicua eredità di opere d’arte ospitate al Catajo, la villa-castello dei Colli Euganei eretta intorno al 1570 da Pio Enea I degli Obizzi. Caroto è celebre soprattutto per il curioso Ritratto di fanciullo con disegno (1515-20), che per andare in mostra si sposta di poco, perché sta sempre a Verona, al Museo di Castelvecchio. Nel quadro un ragazzino sorridente, con una capigliatura che modernamente potremmo definire “pel di carota” (appunto, ma il cognome Caroto non c’entra: le carote arancioni comparvero solo nel XVII secolo in Olanda, dove vennero incrociate le gialle con le rosse), mostra un foglio dove ha disegnato un ingenuo omino stilizzato. L’aspetto burlesco del dipinto pare inserirsi nel profilo biografico del pittore. «Fu Giovan Francesco molto arguto nelle risposte (…) Ebbe sempre Giovan Francesco grande opinione di sé (…) un bizzarro cervello (…) un bell’umore”: così lo descrisse Giorgio Vasari, che parla poco di Caroto nella prima edizione (1550) delle sue Vite dedicate agli artisti celebri, ma si allarga nella successiva del 1568, tanto che si è supposto che i due si siano conosciuti di persona. Cosa non facile, perché l’inquieto Caroto, pur mantenendo base a Verona dove saggiamente conservava pure la spezieria, si spostava molto, lavorando a Casale Monferrato presso la corte dei Paleologhi, o nella Milano sforzesca: qui l’influsso di Leonardo da Vinci sulle sue realizzazioni, talora decantato da critici “leonardizzanti” oltremisura, non appare davvero solido. 

La mostra dedica spazio anche a Giovanni Caroto, il fratello di Giovan Francesco, pittore amante delle antichità e dell’architettura. Un po’ come accadde a Carpaccio, anche Giovan Francesco sopravvisse artisticamente a sé stesso, messo infine in ombra da nuovi linguaggi, a Verona impersonati in primis dal suo allievo Paolo Caliari, detto il Veronese. «Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro», scriveva Leonardo: e “tristo” Paolo non lo fu mai.

Articolo pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 settembre 2022

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