Il 12 novembre alle ore 21 il sacerdote romano sarà nel Cinema San Benedetto per presentare il suo libro appena uscito, “Ma anche no”. Una sfida ai luoghi comuni

di Andrea Musacci

Rischio ricorrente nell’animo umano è quello dell’autoillusione, di crearsi narrazioni di comodo, il tendere «naturalmente alla proiezione, alla sovrapposizione delle nostre paure o delle nostre aspettative, spalmandole sopra la realtà» e sopra l’immagine – autoprodotta – del nostro dio. Di questo – e di molto altro – riflette don Fabio Rosini nel suo ultimo libro, “Ma anche no. La sfida della complessità e l’arte dell’et-et…per salvarsi dalle assolutizzazioni e dalle banalizzazioni” (San Paolo Edizioni, 21 ottobre 2025, 18 euro). Libro che presenterà lui stesso a Ferrara la sera del 12 novembre nel Cinema San Benedetto di via Tazzoli (inizio alle ore 21). 

Don Rosini è volto noto nella nostra Chiesa: romano, biblista, docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, è molto seguito in particolare dai giovani. Ma questo libro si rivolge a tutti, perché le autoillusioni non conoscono età; e l’effetto di questo meccanismo è porre il bene in noi e il male negli altri, riproponendo a livello relazionale la dinamica schmittiana dell’amico-nemico. Non v’è dubbio: è molto più facile vedere il male (reale o non) nell’altro che non in noi stessi. Così purtroppo è anche nella Chiesa, cioè nei suoi membri quando scelgono di essere del mondo: «È triste constatare – scrive don Rosini – che in molti ambienti ecclesiali, pure i più evoluti, ci sia sempre un nemico contro cui combattere; qualcuno da cui distinguersi, a cui opporsi. Persone da condannare. Per non identificarsi…». Gesù invece sapeva che la propria missione era di stare coi malati, i difettosi, i peccatori (Mt 9,10-13): che la loro miseria (la nostra) aveva bisogno della Sua Misericordia (si ricordi a tal proposito la Lettera Apostolica Misericordia et misera di Papa Francesco, uscita nel 2016 a conclusione del Giubileo). «Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia», scrisse Sant’Agostino riflettendo sull’incontro di Gesù con l’adultera (Gv 8,1-11). «Le persone oneste non si lasciano bagnare dalla grazia», scriveva Peguy: «ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia».

FALSI RIFUGI CONTRO L’INATTESO

Il nemico che ci costruiamo, l’altro come male assoluto è una sorta di rifugio – non si sa se più inutile o dannoso – contro la Grazia, contro gli imprevisti della vita, contro noi stessi: «Per istinto di sopravvivenza – scrive don Rosini – siamo in cerca di omeostasi, tane mentali sicure che ci permettano di sopravvivere all’imponderabile». Imponderabile che possiamo anche chiamare l’incalcolabile, l’“inpossedibile”. «Le nostre assolutizzazioni sono – quindi – tecniche di sopravvivenza (…), a fronte della nostra congenita precarietà». Ognuno, cioè, ha la perenne tentazione di autoconvincersi di essere totalmente autonomo e totalmente fine a sé stesso.

Ma questa illusione va smitizzata: essere adulti significa abbracciare la realtà, e abbracciare la realtà significa abbracciarne la complessità. La realtà, infatti, scrive l’autore, «è sempre complessa e mai uniforme; è organica, ammette gli opposti e non va mai semplificata grossolanamente; misurarsi con la realtà richiede una maturità che confuta le assolutizzazioni». 

Contro ogni illusione ideologica – di tipo religioso, scientista o politicista -, la realtà è qualcosa che si fa, che si apre davanti a noi, che non possiamo dunque del tutto catturare e incasellare: «il sentiero si fa camminando», scriveva il poeta Machado. La stessa fede cristiana – scrive Rosini – si fonda sull’«et et», non sull’«aut aut»: è, cioè, inclusiva (ma senza retorica), universale, accoglie, ospita, non esclude se non il male e la menzogna (quindi il diabolos, che non ama la differenza, ma la divisione). Il male e la menzogna, certo, base e linfa del peccato, assolutizzazione artificiosa di una parte (come nell’ideologia), che non ci fa mettere a fuoco il Bene: «In ogni singolo atto di non amore c’è qualcosa che ha preso il posto del bene e che diviene più vitale della felicità autentica».

OLTRE C’È L’AMORE

I rifugi, quindi, in realtà sono l’opposto, fughe: «La visione rigida della fede è figlia del bisogno religioso che è proiezione di rassicurazione sul divino (…). La fede è tutt’altro, ma il problema è che una generazione di cristiani ha trasmesso la fede come una grande rassicurazione». Al contrario, «la fede dei cristiani è un dono che si riceve mettendosi in discussione e lasciandosi destabilizzare». Se la realtà è complessità e imprevisto, la fede nel Cristo Risorto non può essere infantile consolazione, conforto a buon mercato. Opposta e speculare a questa «assolutizzazione» è la «banalizzazione», vale a dire un approccio superficiale alle questioni, che se diventa disincanto e cinismo si trasforma molto facilmente in banalizzazione del bene e cedimento al male: una china “dolce” ma molto pericolosa. «Oggi come oggi – scrive l’autore -, anche a livello ecclesiale, navighiamo in un brodo culturalmente banalizzante; siamo in un tempo in cui tutto è nulla, tutto è da prendere poco sul serio».

«Noi abbiamo una fede – scrive ancora don Rosini – che naviga col motore dell’“et-et”»: Dio e uomo, Chiesa umana e divina, Gesù Cristo Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, carne e spirito. Bisogna quindi saper navigare in mare aperto, non cedere alla tentazione dei fortini, dei comodi bunker, mondi nei quali ogni cosa è al suo posto: enorme illusione, quella di scambiare l’artificiosità del nostro ordine con la vita…

Per don Rosini la bella notizia – il Vangelo – è che «c’è altro!». Non solo le nostre gabbie mentali, le nostre miserie quotidiane, le nostre meschinità. C’è il Dio-Amore, c’è la Misericordia. E c’è il nostro piccolo difficile compito quotidiano di prendere una goccia di questa Misericordia e versarla nelle nostre ore feriali, nei nostri gesti, nelle nostre parole: «Amare qualcuno quando si comporta male non è un paradosso, ma il quotidiano: se qualcuno è stato mai amato è stato amato quando ha sbagliato, perché se la gente ti vuole bene solamente se fai tutto per bene, la gente ti vuole bene, ma semplicemente sei una persona corretta e ti si riconosce quello che meriti». L’amore, invece, «dovrebbe essere oltre».

QUEL DISTACCO CHE CI AVVICINA A DIO

Nella seconda parte del volume don Rosini riflette sulle «vie d’uscita» dalle dinamiche dell’assolutizzazione e della banalizzazione. Un percorso impervio, sofferto, che richiede grande fede, cioè grande capacità di abbandono a quel Mistero incarnato nel Cristo che sempre ci supera, che sempre ci pone nella giusta distanza rispetto alle cose, nella profonda relazione con Dio. L’autore inizia quindi col «distacco», «esercizio dell’intelligenza e della volontà» che significa «distacco dal male», «abnegazione, disinteresse delle cose materiali» (e dalle persone che diventano dei) non in quanto tali ma in quanto – sempre – pronti a diventare nostri idoli. In un certo senso anche le cose – cioè ciò che scegliamo, ciò che creiamo o di cui ci circondiamo – dicono della nostra identità; ma non possono esaurirla. La sfida dell’umano sta dunque nell’uscire dalla logica della presa, del possesso, del dominio, del controllo a tutti i costi, che – in ultima analisi – significa in realtà l’esatto contrario: essere posseduti dalle cose, esserne schiavi. 

Questo distacco se è «un processo di verità e di liberazione», di certo «fa sanguinare l’io», almeno all’inizio. È una sorta di disintossicazione dalla dipendenza verso ciò che per sua natura non può soddisfarci pienamente. Dio è il vero anti-idolo: è ciò che non è strumentalizzabile, l’unico in grado di donarci la pienezza del vivere, di non farci sentire la mancanza di nessun surrogato.

E ancora: un’altra «via d’uscita» è «l’elemosina», cioè un altro distacco, il comprendere ciò che si può perdere, antidoto all’avidità. Altra “fuga” autentica da un io malato è poi rappresentata dall’«autoironia», che smitizza quell’idolo che spesso diventiamo, e che è segno di sincera «umiltà». E ancora: l’«astinenza» e il «digiuno», se vissuti non come atti «penitenziali» o «estetici» ma all’insegna della «sobrietà», della «prudenza» e della «temperanza»; e della «pre-videnza»: «è quella cosa per cui io guardo la meta e ricordo che ho uno scopo da raggiungere».

Distacco, quindi, come parola centrale contro il mito performativo, soffocantemente autocentrato, individualista. Distacco che significa anche «lasciar perdere», risparmiare le energie per ciò che davvero conta. È un “perdersi” positivo, un «interrompersi» utile, un oblio necessario, via anche verso il perdono di sé e degli altri. Distacco – ancora – che ha la forma della «santa avarizia», antidoto allo «spreco», della «semplicità ingenua», dell’«interruzione» (v. la chiamata dei primi discepoli, Mc 1, 16-20), del «contraddirsi» e del «lasciarsi contraddire» dagli altri.

IL CENTUPLO E LA VITA ETERNA

Insomma, «si può restare – scrive don Rosini – incapsulati e intontiti» anche «da una cosa buona» se tendiamo «ad assolutizzarla». Bisogna invece «sempre sollevare lo sguardo (…). C’è sempre qualcos’altro che ci sfugge, c’è sempre qualcosa che Dio sa di più». Il Regno dev’essere l’unità di misura per misurare le cose della nostra vita: per divenire colui che «ne riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna» (Mt 19, 29). «Prendiamoci oggi l’opera di Dio», quel raggio di Eterno che è già qui, ora per noi.

Al di là della coltre delle cose e del loro possesso (e del mio “io” soffocante) posso – dunque – finalmente vedere e contemplare il volto dell’altro, immagine e segno di quel Volto che sempre ci supera, sempre ci contraddice, sempre ci porta oltre le trappole del male, nel Suo Mistero di Misericordia viva e presente.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025 

(Foto: Pexels – Whicdhemein One)

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