29 gennaio 1945: Edgardo Fogli, Giuseppe Ghirardelli, Giovanni Farinelli e Vittorio Bulgarelli vengono fucilati dai nazifascisti per “partigianismo”. Vi raccontiamo la commovente storia di Ghirardelli attraverso gli occhi di suo figlio Angelino. Il dovere della trasmissione della memoria

di Pieraldo Ghirardelli

Il 2025 sarà un anno di celebrazioni importanti perché decorrono gli 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questi mesi saremo chiamati a ricordare di giorno in giorno gli avvenimenti cruciale del 1945, dall’apertura dei cancelli di Auschwitz (27 gennaio) alla Liberazione d’Italia (25 aprile). 80 anni, cifra tonda, per un anniversario che sbriglierà le maglie della storia, per risvegliare tutte le memorie, anche quelle alle periferie della grande narrazione, come le storie che hanno attraversato i paesi e le campagne del Ferrarese.

Una delle tante nefaste vicende, verrà ricordata il prossimo 29 gennaio a Comacchio, presso il Parco della Resistenza, dove a partire dalle ore 9 si terrà una cerimonia pubblica, con la deposizione di una corona d’alloro davanti alla lapide dei martiri per la Resistenza: Edgardo Fogli, Giuseppe Ghirardelli, Giovanni Farinelli e Vittorio Bulgarelli, fucilati dai nazifascisti il 29 gennaio 1945, condannati dal Tribunale Militare del Comando Germanico di Comacchio alla pena di morte per “partigianismo”. 

LE RAFFICHE, POI QUEL SILENZIO DURATO GIORNI 

Quel freddo inverno aveva paralizzato l’avanzata degli Alleati appena a sud delle Valli di Comacchio. Il conflitto era lì, prossimo a risvegliarsi in primavera. Allo scandirsi delle gelate, mentre le forze partigiane si coordinavano con gli Inglesi, si accresceva il nervosismo dei nazifascisti. Esplose il 17 gennaio, quando brigate nere e soldati tedeschi cominciarono a sbattere pugni e trascinare via gli uomini iscritti alla “lista nera”, coi nomi di coloro che avevano cospirato o erano sospettati di avversione nei confronti della Repubblica Sociale. In quei giorni furono più di 30 gli uomini tra quelli interrogati e imprigionati. Rinchiusi e torturati, nella caserma dei carabinieri, sede del Comando tedesco. Fuori si era radunata una folla dalla quale si alzavano le voci delle donne, che protestavano e chiedevano dei loro mariti. Un mormorio preoccupato che fu interrotto all’alba del 29 gennaio, quando dalle mura di mattoni della caserma echeggiarono una prima e una seconda raffica di mitragliatrice. Questo provocò un silenzio sospeso che perdurò per giorni, fin quando il 3 febbraio le famiglie appresero che cinque giorni prima quei colpi uditi avevano ucciso i loro cari. 

ANGELINO CHE RIMANE IMMOBILE

Oggi, dove un tempo si ergeva la caserma è sorto il Parco della Resistenza, che anche questo 29 gennaio vedrà arrivare dal selciato tra le file di cipressi i rappresentanti dell’Amministrazione Comunale, delle forze armate locali, dell’A.N.P.I. di Comacchio, le associazioni combattentistiche e gli studenti delle scuole medie coi professori. Ogni anno è sempre così, che ci sia una bella giornata di sole, o una nebbia ovattante, la tromba intona il silenzio d’ordinanza, si leva la bandiera, il saluto ai caduti e vengono fatti discorsi finché quel grappolo di persone volta le spalle ai monumenti e si disperde. A rimanere però fissi, in opposizione a quel flusso, c’era mio nonno Angelino assieme ai pochi ultimi famigliari di quei partigiani. Portavano il loro saluto. 

STORIA DI UNA FAMIGLIA DI COMACCHIO

Il nonno si sfilava il guanto, faceva il segno della croce, un bacio sulla punta delle dita e una carezza a quei freddi volti stampati sulla porcellana. In quel gesto ripercorreva la sua infanzia, quella strada ghiaiata sospesa tra l’argine della valle e la campagna di Porto Garibaldi. Era lì la sua casa, dove visse un’infanzia gioiosa passata a pescare le anguille con la bilancina, a catturare gli uccellini e vivere avventure con gli altri bambini. Quando li invitava a casa serviva loro vino zuccherato, preparava le frittelle e quelle in eccesso le nascondeva sotto il letto. Giocavano coi bastoni a “pindulina” o a nascondino (“lugat”). A rubare le mele, quante le corse col batticuore inseguiti dal fattore, che se li avesse presi prometteva loro un gran castigo… D’inverno, mentre il fratello maggiore Silvio se ne stava ricoverato davanti al calore del fuoco, Angelino si trascinava nei fossi gelati su di una slitta, mentre la mamma Maria lo chiamava affinché rincasasse e lui coi suoi calzoni corti e le gambe rosse preferiva rimanere a giocare. 

I suoi genitori erano mezzadri e abitavano al Palazzino, la casa dei loro signori che vivevano al piano superiore. Il padre Giuseppe lavorava la terra ed era molto ingegnoso, tanto che aveva inventato un modo tutto suo di mietere il grano. Angelino lo seguiva con ammirazione in ogni cosa che facesse. Lo guardava intagliare il legno per farne zoccoli e sedie. Gli faceva da assistente quando due volte alla settimana faceva il barbiere. Gli preparava la schiuma, anche quella volta che il padre rase quel villano che raccontava di quei ragazzini che saccheggiavano il suo meleto. «Tu ne sai niente?», chiese il padre al figlio. Aveva capito che era stato lui, ma non gli fece nulla, perché era un uomo comprensivo, affettuoso, sempre col sorriso e pieno di vita. Scherzoso nel giocare a carte, suonava la fisarmonica alle feste nelle aie. E poi, con l’Armistizio dell’8 settembre 1943, arrivò la guerra. 

DAI SOLDATI INGLESI OSPITATI ALLA MORTE

Passarono da lì soldati italiani ai quali il papà dava dei vestiti mentre gettava nel fuoco le loro divise. Una volta furono accompagnati lì due soldati inglesi, che per qualche giorno rimasero nascosti nel fienile con una grande radio. Prima di andarsene consegnarono a Giuseppe un biglietto con un messaggio. 

Le notti divennero insonni, intercettate dal rombo dei bombardieri, a stare nascosti nei fossi, e ad un grande boato l’indomani seguì la scoperta di una famiglia di vicini spazzata via. Angelino e la sua famiglia divennero sfollati, e trovarono ospitalità nel Seminario di Comacchio. Dopo qualche giorno, tornando al Palazzino con sua madre, ogni cosa era stata razziata, l’uva della viti, la dispensa, i mobili. Rimaneva solo una sedia di legno. Rientrando quel giorno, un caccia sbrindellò un asino che trainava un carretto e il cane di Angelino dallo spavento scappò via per sempre. 

Poi arrivò una notte in cui bussarono alla porta. Tedeschi armati e fascisti radunarono gli uomini nell’androne del palazzo, Angelino spiava rintanato nel sottoscala. Cercavano un Lungati Giuseppe. Dai documenti nessuno corrispondeva. Un ragazzo emerse dall’ombra col dito puntato su suo padre. «È lui che ha dato ospitalità agli Inglesi». 

Giuseppe Ghirardelli fu portato via. Angelino con grande paura corse in casa, prese sul camino una boccetta di fermenti lattici dentro la quale era nascosto il messaggio inglese. Lo gettò con foga nelle fiamme. Forse pensava che bruciandolo, tutto si sarebbe sistemato. In seguito lui e la madre andarono a trovare il padre. Entrarono nelle prigioni delle caserma e dietro le sbarre, a terra sulla paglia vide un uomo dalla faccia e le mani gonfie e peste. Non aveva riconosciuto le mani di suo padre. Quella fu l’ultima volta che lo vide. Sarebbe stato il Vescovo di Comacchio mons. Paolo Babini, accompagnato dal parroco don Vito Ferroni, a dare loro la notizia. 

Di Giuseppe tornarono a casa solo gli zoccoli e le calze. Angelino pianse tre mesi. Aveva tredici anni. Piangeva davanti agli zoccoli di suo padre e un giorno si accorse che da una cucitura spuntava un pezzo di carta. Era un messaggio rivolto alla sua famiglia. Qualcosa come Vi voglio bene, Maria ho dei soldi infilati nelle calze, e altre parole perdute come quel biglietto. 

DALL’ASCOLTO AL RACCONTO

Tutte le volte, nel lasciare il Parco il nonno ripeteva: «Ogni anno, a mi emusion sempre ad più» (Mi emoziono sempre più). Angelino si è spento il 16 agosto 2024, all’età di 93 anni e questo sarà il primo 29 gennaio senza di lui. 

È così che nella nostra epoca siamo costretti a veder scomparire gli ultimi testimoni di quei momenti bui, che per una legge del tempo, rivedremo in ultimo attraverso l’innocenza dei loro occhi di bambini. Può essere desolante, rimanere soli con i racconti di chi ci ha preceduto. Abbiamo dato ascolto ad una storia sapendo che un giorno l’avremmo dovuta raccontare noi, ma quel giorno sembra sempre impossibile che arrivi. Solo allora però la si sente veramente: la responsabilità di ricordare.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 gennaio 2025

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