La suggestiva ipotesi proposta dalla storica dell’arte Barbara Giordano su due dei lacerti del XIV sec. nella parete occidentale nascosta della chiesa di San Paolo a Ferrara: la mano aperta, l’aureola, il drago…tutto porterebbe alla santa “laica” protettrice delle partorienti e dei cavalieri. E con la possibilità che l’artista sia Vitale da Bologna o uno del suo entourage

[Il testo di Barbara Giordano è parte della Prolusione da lei tenuta assieme a mons. Massimo Manservigi lo scorso 10 ottobre per l’inaugurazione dell’a.a. 2025/2026 dell’UTEF nel Refettorio di S. Paolo. Seguirà un altro articolo dedicato agli affreschi]

di Barbara Giordano* 

Uno studio di Laura Graziani Secchieri (1) che ha accompagnato i lavori di recupero del complesso architettonico dei chiostri della chiesa della Conversione di San Paolo avvenuto all’inizio degli anni Novanta, ben sottolinea l’importanza economica e la potenza del convento, fondato nel cuore della città e, proprio per questo, privo di rendite derivanti dal contado, cioè da campi, orti, frutteti, pascoli e pertinenze agricole se si eccettuano alcune assai distanti dalle sue mura, confinate nel polesine di San Giorgio. 

LA RICCHEZZA DEL COMPLESSO

La vera ricchezza dei monaci – in origine 12 frati appartenenti alla Congregazione della Beata Vergine del Carmelo a cui il Vescovo Federico affida la chiesa nel 1295 – è l’ubicazione stessa della pieve, la cui antichissima presenza in città è documentata a partire dal X secolo e dove già nel 1260 è attestato il culto della Vergine del Carmelo. Con la facciata rivolta a nord, verso il cuore pulsante della politica, del commercio e della religione nella Ferrara di età comunale, il piccolo edificio, si erge proprio tra la Via Grande e Via delle Volte, le principali arterie dell’urbanistica altomedioevale che permettono il fluente andirivieni delle merci e lo sviluppo delle attività lungo l’asse che dal porto sul Po, conduce alla piazza delle Erbe, alla Cattedrale, al Palazzo della Ragione. 

La seconda, immensa ricchezza dei Padri Carmelitani arriva alla metà del Quattrocento, quando il loro convento – nel frattempo sviluppatosi a tal punto da occupare una vasta area del centro urbano grazie alle molteplici acquisizioni compiute in maniera sottilmente strategica – viene annesso alla chiesa di San Paolo, dal 1454 ufficialmente parrocchia degli Estensi, i Duchi di Ferrara. A questo punto, anche i membri delle famiglie nobili e più altolocate della città prendono i voti nel monastero carmelitano contribuendo in maniera sostanziosa con lasciti ed eredità di beni, all’accumulo di una ricchezza tale da permettere la realizzazione di quelle «opere che dovevano rendere la chiesa e il convento di San Paolo degni della frequentazione del Signore di Ferrara e della sua corte, oltre che dei suoi illustri monaci». Il 1330 segna un punto saliente nella storia del convento dopo l’acquisizione, avvenuta nel 1317, della torre appartenente alla famiglia Leuti-Sassi che diventerà campanile della chiesa di San Paolo. È questo l’anno in cui si attesta il compimento del primo chiostro adiacente al sagrato, edificato con un notevole impegno monetario da parte dei Carmelitani e con l’incameramento nella struttura dell’antico Oratorio di San Giacomo. 

La sua costruzione ingloba la casa dei frati, che non viene demolita, e si incunea tra il fianco della chiesa di San Paolo Vecchio e l’Oratorio sopraddetto dando vita ad una struttura architettonica sovradimensionata in quella che era la primitiva proprietà dei Carmelitani. Come afferma la Secchieri: «in questo frangente, inoltre, i frati hanno ingrandito anche la chiesa stessa (…) poiché la costruzione del chiostro aveva creato un problema di illuminazione al santuario occludendo l’alto portale ed i finestroni gotici: essi sono tutt’ora visibili, murati al primo piano del corpo porticato e negli interstizi tra il muro della chiesa e le pareti delle cappelle aggiunte alla fine del Cinquecento».

GLI STRAORDINARI AFFRESCHI

E proprio qui nel 1991, durante controlli effettuati in previsione del restauro architettonico dell’intero complesso, che sul muro interno della chiesa in confine con il chiostro, ci si è imbattuti in una serie di tracce straordinarie di affreschi risalenti ad epoche differenti e che ne ripercorrono la parabola storico-artistica, documentandone il tortuoso percorso nei secoli (2). Partendo da sinistra verso destra lungo l’asse corrispondente alla navata destra della chiesa tardo cinquecentesca, sulla parete retrostante appartenente a San Paolo Vecchio, una delle immagini più suggestive per antichità: la Madonna con Bambino la cui «fronte alta, le sopracciglia nette, l’occhio allungato, la bocca minuta semiaperta e una particolare veste a pieghe con scollo», la collocano per assonanza stilistica (secondo gli studi compiuti sull’affresco dalla storica Valentina Cisterna) nell’ambito del Terzo Maestro di Sant’Antonio in Polesine, ovvero l’artista attivo a Ferrara a metà del Trecento nell’importante monastero delle Figlie della Beata Beatrice d’Este. La stoffa rossa alle spalle della Vergine ripropone un motivo geometrico a rombi già visto nei panneggi che decorano le pareti della cappella delle Benedettine realizzata dal Maestro e si ritrova nella sua raffigurazione della Decollazione del Battista e danza di Salomè. Questo artista – seguace della scuola bolognese antica, legata alla tradizione pittorica di Francesco e Pietro da Rimini – supplisce alla sua modesta capacità tecnica, con una forte espressività e drammaticità sentimentale nel racconto pittorico. È quindi possibile dalla sommatoria degli elementi stilistici, datare l’affresco in San Paolo intorno al 1350. Nel 1330 i documenti attestano la costruzione del chiostro sul fianco occidentale della chiesa primitiva. 

La presenza sull’antico muro che stiamo esaminando, di finestre gotiche murate e del grande portale chiuso durante i lavori di costruzione del chiostro indica con certezza che ci troviamo di fronte all’unica parete laterale di San Paolo Vecchio, alla quale la chiesa nuova, ricostruita dopo il sisma del 1570 dall’Architetto Schiatti, si è “addossata” con le cappelle della navata di destra. Come suggerisce lo studio della Cisterna, «i lavori di muratura nella parete comune tra i due elementi architettonici (chiesa e chiostro, nda) devono aver consentito anche un ripensamento dell’apparato decorativo. 

Si può quindi pensare al 1330 come ad una data che funge da post quem per il nostro affresco».

QUELLA SANTA ARCANA

L’analisi più approfondita di questa parte di muro, grazie alla tecnologia operata da mons. Massimo Manservigi per il rilievo 3D operato insieme dall’équipe di Assorestauro, ha permesso di vedere altro su questa parete situata in un luogo che resta comunque inaccessibile al pubblico e totalmente privo di illuminazione. 

A sinistra della Madonna seduta col Bambino sulle ginocchia si delinea una figura femminile molto danneggiata, la cui interezza viene interrotta al centro dalla presenza di una fessurazione molto ampia tamponata da mattoni e calce. Emerge un tratto di sinopia ancora abbastanza leggibile, capace di individuarne il volto, l’aureola, un abito di forgia nobiliare e una mano spalancata, in atto di stupore o difesa. Più in basso, al di sotto del trono della Madonna, si intravvedono sagome molto rovinate e di difficile lettura: un cavaliere in ginocchio verso cui si rivolgono lo sguardo e la manina benedicente di Gesù e, alle sue spalle, i lacerti a graffito di un paio di corna, di fiamme arricciate e di una testa che nulla ha di umano, ma che richiamano l’iconografia di un drago. La prima reazione di fronte a questi elementi iconografici, è stata di associare le figure alla leggenda di San Giorgio, il cavaliere patrono della città estense. Di conseguenza, la fanciulla sarebbe da identificarsi con la principessa da lui salvata. Resta il dubbio del perché quest’ultima sia raffigurata con l’aureola pur non trattandosi di una santa, ma di una gentildonna. E perché la Madonna non volge lo sguardo verso di lei, ma ammicca al di fuori dell’affresco invitando con gli occhi coloro che la osservavano dal basso nella navata della vecchia chiesa? 

Il dubbio che ci è sorto è che siamo di fronte alla rappresentazione di una scena di”ex voto” su quello che è un muro mariano e che la nostra santa misteriosa graviti in realtà nell’ambito del mondo femminile del tempo, visto che la chiesa era frequentatissima proprio per la devozione alla Madonna del Carmelo.

SANTA MARGHERITA D’ANTIOCHIA

Scorrendo la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, ci si imbatte nella storia di Margherita di Antiochia. Dopo la morte della madre alla sua nascita nel 275 d.C., Margherita viene affidata ad una balia cristiana che, nonostante le persecuzioni di Diocleziano, alleva la bambina nella sua religione. Per questo motivo il padre, un sacerdote pagano, la caccia di casa. La giovane viene così adottata dalla balia e inizia a prendersi cura di un gregge. Un giorno, durante il pascolo, il prefetto Ollario tenta di sedurla, ma lei lo respinge confessandogli la sua fede: il prefetto, a quel punto, la denuncia come cristiana. Dopo essere stata processata e sottoposta a torture, Margherita è incarcerata. È proprio durante la sua prigionia che viene visitata dal demonio sotto la forma di un grosso drago che la inghiotte. Secondo la versione più popolare della leggenda, Margherita gli squarcia il ventre con un Crocifisso che tiene sempre tra le mani, uscendo illesa dal corpo dell’animale. In altre versioni, Margherita lo combatte e lo schiaccia sotto il calcagno: un gesto ricorrente nell’iconografia cristiana, basti pensare alle rappresentazioni dell’Immacolata Concezione o a quelle di San Michele Arcangelo. Tuttavia, dopo aver resistito miracolosamente ad altri tormenti, viene decapitata nel 290. La fanciulla di Antiochia diventa così una figura popolarissima nel Medioevo entrando a far parte dei quattordici santi ausiliatori della Chiesa, cioè di coloro che vengono invocati per guarire determinate malattie. 

La capacità di Margherita di uscire dal ventre del drago con la forza della Croce la elegge a protettrice delle partorienti, invocata per ottenere un parto semplice e la sicurezza di madre e figlio. La tradizione popolare documenta infatti come se la donna fosse stata in pericolo di vita, si sarebbe proceduto alla lettura della biografia della santa oppure le si sarebbe appoggiato sul ventre il libro aperto. Il drago che si delinea nella fascia bassa sul muro, non sarebbe quindi da riferirsi alla leggenda di San Giorgio, ma bensì testimonierebbe l’iconografia propria di Margherita di Antiochia, invocata da un futuro padre inginocchiato nelle vesti di cavaliere (un soldato potente o un nobile armato che può permettersi di far affrescare un “ex voto” da un artista affermato nella chiesa cittadina più frequentata dopo la Cattedrale) ai piedi del Bambino benedicente, perché interceda presso la Madonna per il buon esito del parto della moglie. 

Resta aperta però una seconda ipotesi: essendo Margherita d’Antiochia anche la protettrice dei cavalieri, siamo di fronte alla preghiera di un uomo d’arme per la salvezza in battaglia o a un ringraziamento per aver fatto ritorno a casa? È interessante il gioco di sguardi che intreccia in un triangolo perfetto Santa Margherita che guarda verso Gesù, il Bambino che guarda benevolmente il cavaliere, quest’ultimo che a sua volta – nonostante il volto dipinto sia inesorabilmente perduto – alza la testa verso il Piccolo Benedicente. Pare così evidenziarsi un dialogo fra i tre protagonisti della scena, in cui la santa funge da figura di intercessione, mentre la Madonna seduta, volgendo gli occhi al di fuori dello spazio, invita a partecipare alla scena rimanendone comunque il punto focale – quindi centrale – per l’osservazione di chi vi si pone davanti.  Resta assodato come la devozione verso Margherita di Antiochia fosse molto sentita e in maniera trasversale nella società di un’epoca in cui morire di parto o in battaglia era all’ordine del giorno e non meraviglia quindi che in San Paolo Vecchio, chiesa dove si pregava con particolare venerazione la Madre del Carmelo, abbia potuto trovare il suo spazio anche la santa più vicina all’intimità del mondo femminile e ai valori di quello cavalleresco.

UN ALTRO AFFRESCO: È ANCORA SANTA MARGHERITA?

Se osserviamo un frammento di pittura che decora la seconda cappella alla sinistra della Vergine col Bambino con il mantello blu picchiettata alla base dell’arcone gotico, incrociamo il lacerto di una figura femminile dallo sguardo rivolto verso un interlocutore purtroppo perduto e le dita della mano sollevate. La lettura è molto difficoltosa per lo stato di degrado della materia pittorica e le parti mancanti di muro. Si tratta sicuramente di una santa, data la presenza dell’aureola. Le sue vesti, nonostante siano molto deteriorate, identificano un gusto attento per il particolare. Ci basta osservare la serie di bottoni bianchi simili a fiorellini sul corsetto blu. Colpiscono le maniche, forgiate alla moda delle gentildonne del tempo, allacciate alla veste grazie a piccoli nastri che ne permettono il distacco per la lavatura e il ricambio. Dal XIV al XV secolo si assiste infatti ad un cambiamento della moda molto drastico, che conduce dalle maniche lunghe ampie “ad angelo” o “farfalla” – frequentemente rappresentate con un’allargatura a forma di imbuto verso il gomito – a quelle aderenti al braccio, molto spesso separate e riprese da nastri, permettendo così che la camicia interna fuoriesca dal tessuto dell’abito. Questo vezzo perdura fino al tardo medioevo, quando viene raggiunta la massima stretta con l’introduzione di lacci in cuoio e sono simbolo dello status sociale e della ricchezza di una famiglia fino a tutto il Rinascimento. È il nostro caso. La figura così vestita appartiene iconograficamente a un alto lignaggio ed è una santa “laica”, perché priva del velo che la connoterebbe come la Madonna o un’esponente del mondo claustrale. I tratti del viso non la riconducono a nessuna mano dei maestri che abbiamo incontrato finora attivi sulla parete antica di San Paolo, ma la qualità artistica è notevole. Osservando con attenzione la mano aperta della santa, che reca come in sospensione qualcosa di molto simile a uno stelo, si è notato uno stretto parallelismo di posa iconografica con la mano aperta appartenente alla figura femminile analizzata nella prima cappella e che ho ricondotto a Margherita di Antiochia. In questo caso però, la parte di pittura sopravvissuta non ci consente di leggerne la collocazione spaziale né di identificare ulteriori elementi iconografici atti a comprenderne il ruolo narrativo. Ma proprio in quella mano, si legge la presenza di un piccolo asse di legno e non dello stelo di un fiore, come potrebbe sembrare ad un primo sguardo superficiale. Il legno è identificabile con una croce che la Santa porta in mano…come Margherita di Antiochia, che la tradizione nei secoli raffigura in vesti principesche con accanto (o ai piedi) il drago e sulle mani spalancate il Crocifisso con cui ha squarciato il ventre della bestia satanica che l’ha divorata. La mia ipotesi è che siamo nuovamente di fronte alla raffigurazione della protettrice delle partorienti e dei cavalieri dentro un complesso pittorico indipendente e di epoca differente rispetto a quello dove Santa Margherita è stata da noi individuata precedentemente.

L’IPOTESI VITALE DA BOLOGNA

I documenti attestano che questa parete di San Paolo Vecchio era già presente nel 1330, quando è in corso l’edificazione del primo chiostro sul lato occidentale della chiesa. Tra il 1334 e il 1359, Vitale da Bologna, principale rappresentante della pittura gotica emiliana, è attivo in diversi cantieri della città tra cui la vicina chiesa di Santo Stefano Protomartire (3). Il modo di tracciare il profilo del naso dalla punta morbida, la guancia piena, il mento pronunciato, l’inclinazione della bocca nonché quell’attenzione al particolare tipica di chi lavora con una tecnica a secco come spesso faceva il Maestro Vitale, e che nel caso di questa figura femminile gli avrebbe permesso la realizzazione (per il maggiore lasso di tempo concesso all’artista rispetto all’asciugatura rapidissima della tecnica “a fresco”) delle decorazioni sull’abito e dei nastri nelle maniche, ci pone davanti al quesito se, oltre che di una più antica raffigurazione di Santa Margherita d’Antiochia rispetto a quella del Terzo Maestro di Sant’Antonio in Polesine, non si tratti anche dell’unica testimonianza sopravvissuta sul muro, di un ciclo di affreschi di mano di Vitale da Bologna o di un artista del suo entourage fino ad oggi totalmente sconosciuto. 

 

* Barbara Giordano è storica dell’arte e membro dell’UCS – Ufficio Comunicazioni Sociali dell’Arcidiocesi di Ferrara-Comacchio

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1 – Laura Graziani Secchieri, La Chiesa e il Convento di San Paolo – FD – Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara.

2 – Anna Maria Visser Travagli, La scoperta degli affreschi di San Paolo, in “Ferrara, voci di una città”, n. 1 (dicembre 1994), Rivista della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara.

3 – Giovanni Lamborghini, Vitale sì, Vitale no. in “Ferrara, voci di una città”, n. 34 (giugno 2011), ibid.

 

IMMAGINI

Foto grande in alto: particolare della santa con la mano aperta.

Foto sotto: affresco con Madonna seduta col Bambino e a sinistra la santa, il drago e il cavaliere; striscia: santa, drago e cavaliere evidenziati.

 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025 

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