Alessandra Annoni e Silvia Borelli, docenti di UniFe, spiegano gli obiettivi dei 5 quesiti a cui siamo chiamati a rispondere col voto nelle urne. Tanti i temi che toccano la vita quotidiana: dai contratti precari agli incidenti sul lavoro, dai licenziamenti ai diritti civili legati all’acquisizione della cittadinanza

di Andrea Musacci

Quanto spesso nei normali discorsi fra le persone si sente – giustamente – lamentare del lavoro precario, delle cosiddette “morti bianche” (che quasi mai sono “bianche”), dei licenziamenti ingiusti (individuali o collettivi), dell’assurdità di persone – che incontriamo a scuola, al lavoro – che vivono da tanti anni nel nostro Paese e non sono riconosciuti cittadini come noi…

L’8 e il 9 giugno, ognuno di noi è chiamato a votare su 5 quesiti referendari riguardanti proprio lavoro e cittadinanza. Un’ottima occasione, quindi, per esprimere la propria opinione su temi che riguardano o potranno riguardarci direttamente, o persone a noi care, con le quali condividiamo momenti delle nostre quotidianità: i licenziamenti, i contratti a termine, la responsabilità negli appalti, la cittadinanza per gli stranieri. Le cinque schede di diverso colore rappresentano altrettanti ambiti su cui gli elettori sono chiamati a esprimersi.

La sera dello scorso 27 maggio nel Cinema Santo Spirito di Ferrara erano oltre 200 le persone (fra cui diversi giovani) ritrovatesi per l’incontro organizzato da alcune associazioni e movimenti ecclesiali ferraresi (Azione Cattolica, ACLI, AGESCI, MASCI, Movimento Rinascita Cristiana, Comunità Papa Giovanni XXIII, Salesiani cooperatori). Le relatrici sono state Alessandra Annoni, professoressa ordinaria di Diritto internazionale all’Università di Ferrara e Silvia Borelli, professoressa associata di Diritto del Lavoro dello stesso Ateneo. L’incontro è stato introdotto e moderato da Alberto Mion. Una forte risposta dei ferraresi per un’iniziativa di alto livello nel quale le due esperte hanno aiutato i tanti presenti a chiarire alcuni dubbi riguardanti temi sicuramente complessi. Con un appello ad andare a votare l’8-9 giugno per due motivi di fondo: per segnalare al Parlamento che questi temi interessano tutti i cittadini e le cittadine; come occasione per interrogarci sul modello cittadinanza, cioè su cosa significa essere cittadino/a italiano/a, qual è la nostra idea di popolo oggi. Popolo, lo ricordiamo, di una Repubblica democratica (dove il referendum è uno degli strumenti diretti di questa democrazia) fondata sul lavoro. Lavoro che, appunto, si vuole tutelare attraverso i primi 4 requisiti referendari.

Tante sono state anche le domande e le riflessioni dal pubblico a conclusione dell’incontro. La registrazione integrale dell’iniziativa a S. Spirito sarà disponibile sul canale You Tube della nostra Arcidiocesi: youtube.com/@chiesadiferraracomacchio

Vediamo ora nel dettaglio i cinque quesiti referendari attraverso l’analisi di Silvia Borelli e Alessandra Annoni.

 

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Scheda verde: “Contratto di lavoro a tutele crescenti. Disciplina dei licenziamenti illegittimi. Abrogazione”

Il quesito propone di abrogare le norme che, in caso di licenziamento illegittimo in aziende con più di 15 dipendenti, prevedono un indennizzo economico anziché il reintegro nel posto di lavoro, fatta eccezione per i casi più gravi di illegittimità. L’abrogazione ripristinerebbe di fatto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, seppur modificato dalla riforma Fornero nel 2012.

«La Corte Costituzionale si è espressa ben 8 volte sul Jobs Act», spiega Borelli. Un numero enorme, «se pensate che già 1 volta sarebbe tanto». Ciò significa che il Jobs Act (Legge n. 183/2014) presenta diverse criticità. Oggi, anche in caso di licenziamento ritenuto illegittimo, l’azienda è tenuta solo a un risarcimento. In altri termini, «le imprese hanno il diritto di licenziare ingiustamente un lavoratore o una lavoratrice, basta che paghino un risarcimento». Una palese ingiustizia. Insomma, per Borelli «un diritto fondamentale come quello della stabilità del proprio posto di lavoro può essere “pagato”. Il licenziamento illegittimo viene permesso». Per questi motivi, il primo quesito referendario vuole dare il diritto al lavoratore di essere reintegrato, di tornare – cioè – ad avere quel posto di lavoro che gli è stato ingiustamente sottratto.

Scheda arancione: “Piccole imprese. Licenziamenti e relativa indennità. Abrogazione parziale”

Il quesito punta a rimuovere il tetto massimo all’indennità prevista in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese. Attualmente, tale indennità non può superare le 6 mensilità di stipendio. L’abrogazione di questo limite consentirebbe al giudice di stabilire l’indennizzo sulla base di criteri quali l’età del lavoratore, l’anzianità di servizio e la capacità economica dell’azienda.

Obiettivo del secondo quesito referendario è di «far saltare il tetto massimo di 6 mensilità di stipendio come indennità in caso di licenziamento illegittimo e lasciare al giudice di decidere il giusto risarcimento. Questo – spiega Borelli – è importante, a maggior ragione in una situazione come quella italiana in cui gli stipendi e i salari sono mediamente bassi». A tal proposito, si è espresso in questo senso anche l’Unione Europea: l’11 febbraio 2020, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa ha reso pubblica la propria decisione nel merito circa il reclamo collettivo 158/2017. Nel reclamo, presentato il 26 ottobre 2017 dalla CGIL, si chiedeva al Comitato di sancire la violazione da parte dell’Italia dell’art. 24 della Carta sociale europea riveduta (Diritto ad una tutela in caso di licenziamento) in relazione alle disposizioni del d.lgs. 23/2015 in materia di protezione dei lavoratori del settore privato in caso di licenziamento illegittimo (artt. 3, 4, 9 e 10). Infine, riguardo a questi primi due quesiti Borelli ci tiene a sottolineare come «non esista nessuna prova empirica secondo cui poter licenziare più facilmente favorisca le assunzioni. L’aumento di queste nel 2016 – spiega – non erano causate dal Jobs Act ma solo dagli sgravi contributivi di quell’anno e che, per altro, potevano appunto riguardare anche contratti poi scaduti di lì a breve».

Scheda grigia: “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”

Il quesito propone di restringere la normativa sui contratti a tempo determinato. In caso di approvazione, diventerebbe obbligatoria l’indicazione di una causale giustificativa sin dall’inizio del contratto e verrebbe limitata la discrezionalità delle parti nel definire tale causale, rendendo più rigide le condizioni per proroghe e rinnovi.

La terza scheda riguarda la vita di tantissime persone, soprattutto giovani, nel nostro Paese. «Dal 2015, in conseguenza del Jobs Act, per i contratti a termine o a tempo determinato non è più obbligatorio per il datore di lavoro indicare la causale, cioè specificare i motivi per cui si fa un contratto a termine e non a tempo indeterminato», spiega Borelli. Ciò ha portato a «un forte aumento dei contratti a termine, a scapito di quelli a tempo indeterminato». Obiettivo del referendum è di rimettere l’obbligatorietà della causale anche per i contratti di non oltre 12 mesi. E la causalità deve riguardare anche le proroghe e i rinnovi.

Scheda rossa: “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice. Abrogazione”

La normativa attuale stabilisce che, in caso di infortuni sul lavoro, il committente sia responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori, tranne nei casi in cui il danno sia provocato da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Il quesito propone di abrogare questa eccezione, facendo sì che il committente risponda sempre degli infortuni sul lavoro in ambito di appalti e subappalti, indipendentemente dalla natura del rischio.

Appalti e incidenti – più o meno letali – sul lavoro: un’altra questione molto delicata, che tanta sofferenza continua a portare a molte famiglie. «Gli appalti creano un problema per il lavoro – spiega ancora Borelli – perché sono diventati una routine, costando di meno all’azienda committente» (chi incarica un altro soggetto, l’appaltatore, per l’esecuzione di un’opera o di un servizio). In questo modo, però, «si esternalizzano anche gli obblighi e le responsabilità». Ciò avviene soprattutto nel mondo della logistica, in Italia una vera e propria giungla di appalti e subappalti. I minor costi per l’azienda committente «si traducono in salari più bassi» e, dall’alta parte, «in un aumento di incidenti sul lavoro: dare un appalto, infatti, significa risparmiare non solo sulle retribuzioni ma anche sui costi della sicurezza, con conseguenti ripetute violazioni». Sono stati 1090 i morti sul lavoro in Italia nel 2024, molti dei quali proprio in imprese appaltatrici o subappaltatrici.

Il quarto quesito ha quindi come obiettivo quello di rendere responsabili anche l’azienda committente in caso di incidenti sul lavoro. «Il committente – spiega Borelli – viene, così, maggiormente responsabilizzato nella scelta delle aziende appaltatrici, oltre a garantire sempre un risarcimento ai lavoratori e alle lavoratrici che subiscono danni da incidenti sul lavoro».

Scheda gialla: “Cittadinanza italiana. Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne  extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”

Il quesito propone di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale necessario per poter richiedere la cittadinanza italiana per gli stranieri maggiorenni extracomunitari. Rimangono invariati i requisiti e i soggetti che possono fare richiesta. Tale durata di cinque anni era già prevista prima della legge 91 del 1992 e, attualmente, è ancora valida per stranieri maggiorenni adottati da cittadini italiani, apolidi e rifugiati.

Attualmente in Italia si può acquisire la cittadinanza italiana se almeno 1 dei propri genitori è italiano, al compimento del 18° anno d’età o sposando un cittadino/una cittadina italiana. Degli altri casi si occupa invece il quesito referendario, che intende abrogare la lettera f dell’art. 9 della legge 91/1992, dimezzando da 10 a 5 anni la durata di residenza legale ininterrotta utile ai cittadini extraUE per ottenere la cittadinanza. 

Se vincono i “Sì”, quindi, non si introduce né lo Ius soli né lo Ius scholae, né cambieranno altri aspetti riguardanti la cittadinanza. Effetti positivi si avranno, invece, sui figli di chi prenderà la cittadinanza appunto dopo 5 anni e non 10, non dovendo perciò aspettare di diventare maggiorenni per diventare cittadini. Una stima (inevitabilmente approssimativa) indica in 1,7 milioni gli stranieri maggiorenni che – in caso di vittoria del “Sì” – avranno la possibilità immediata di diventare cittadini italiani.

 

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 giugno 2025 

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