2 marzo 2020

di Cinzia Berveglieri

Ce l’ho fatta! Finalmente sono riuscita a “scalare” la montagna di panni da stirare.

Mentre ripasso il colletto dell’ultima camicia, getto lo sguardo all’orologio sulla parete e mi rendo conto di quanto sia tardi, ancora pochi minuti e oggi si trasformerà in ieri. Apro la finestra, spalanco le braccia per chiudere le ante esterne e alzando lo sguardo al Cielo trattengo il respiro temendo che un soffio possa spazzare via le miriadi di stelle che rischiarano questa notte di fine inverno.

Vorrei andare a letto, ma quelle stelle sono così vicine che riesco a percepire il loro fremito luminoso che mi invita a fermarmi, “a fare combriccola”, così resto e lascio che i miei pensieri salgano fino a loro.

C’è stato un tempo in cui ero molto arrabbiata con il Cielo, anzi, ad essere precisi ero arrabbiata con chi il Cielo lo aveva creato, perché sembrava essersi dimenticato di me. Da mesi mi rivolgevo a Lui senza ottenere nessuna risposta.

Perché Dio avevi permesso che la Morte portasse con sé il mio papà senza lasciarmi il tempo di salutarlo? Avevo tante cose da dirgli prima che se andasse! Volevo spiegargli che se gli ho tenuto nascosto la diagnosi fatta dai medici l’ho fatto per amore. Volevo che sentisse dalla mia voce quanto ero fiera di essere sua figlia.

Volevo dirgli quel “ti voglio bene” che troppe volte non ho detto, dando per scontato che lo sapesse. Sono passati mesi prima che mi decidessi a parlare con te, Don. Seduti di fronte all’immagine di Maria, tu cercavi di rispondere alle mie domande…

“I tempi di Dio non sono i nostri tempi”, mi dicevi quando ti chiedevo quando sarei riuscita a fare pace con il mio dolore. “Ma Don, io voglio…”

“Cinzia, la strada che Dio sceglie di farci percorrere non è un’autostrada da percorrere a tutta velocità, ma un sentiero, spesso in salita, da affrontare a piccoli passi. Non bisogna avere fretta di arrivare in cima, per poter gustare appieno la gioia di lasciarsi andare nella discesa”.

E io ho smesso di arrovellarmi nei miei “perché” e ho ricominciato a fidarmi del Cielo, ho affrontato a piccoli passi la salita del dolore e quando ho creduto di essere finalmente arrivata sulla cima e di potermi godere la discesa…è arrivata la tua malattia, don.

Così, improvvisamente, mi sono ritrovata a percorrere una strada già fatta, avendo sulle spalle uno zaino pieno di una consapevolezza diversa. Ho sempre evitato di farti visita in ospedale. Ci sentivamo attraverso messaggi a cui tu rispondevi, nei momenti in cui il dolore ti dava tregua. Non ti ho mai chiesto come stavi. Non volevo che tu mentissi nascondendomi il tuo reale stato di salute.

Parlavamo di mia figlia Giulia, della sua adolescenza, di quanto fosse importante “non recidere mai il dialogo” anche se lei sembrava non ascoltare i miei consigli. Ti descrivevo gli arcobaleni, che apparivano improvvisamente a colorare le mie preoccupazioni. Ci ricordavamo l’uno nelle preghiere dall’altra.

Sì, questa volta, forte dell’esperienza passata, avevo scelto io la strada da percorrere…o forse no…

È una mattina piena di sole ed io sto ripulendo casa da cima a fondo. Il telefono squilla, lo ripesco sotto gli stracci della polvere e leggo il nome sul display: don Alessandro.

Mi accorgo che sto tremando perché non riesco a spingere il tasto di risposta, sento che sto dicendo “come stai don?” e spero che tu non senta i battiti impazziti del mio cuore.

“Ti ho chiamato Cinzia perché voglio salutarti”.

Riesco solo a dirti “grazie”…Il resto della giornata lo passo piangendo cercando di non pensare al significato del tuo saluto.

La mattina seguente salgo sulla macchina per andare al lavoro, ma mi rendo conto che non sono sulla “strada giusta”, ho imboccato la strada che porta all’ospedale. Non so perché lo sto facendo, ho l’impressione di aver impostato sul navigatore la strada del cuore, quella che mi porta di fianco al tuo letto…Tu stai dormendo un sonno profondo indotto dai farmaci.

Recito una preghiera mentalmente e, d’istinto, appoggio una mano sulla tua e mi rendo conto che mi stai sorridendo. “Ciao Cinzia, finalmente sei arrivata, ti stavo aspettando”, e prima di richiudere gli occhi mi sorridi trasmettendomi un senso di pace indescrivibile.

Ci sono voluti 1096 giorni (tanti ne sono passati dal tuo ritorno alla Casa del Padre) e una notte stellata perché io sentissi il bisogno di raccontare di quel sorriso che porto sempre con me, perché, me lo dicevi sempre che “i doni ricevuti, vanno condivisi, altrimenti, che senso ha l’averli ricevuti?”.

Così affronto la vita sorridendo…Sorrido alla bimba che gioca sull’altalena, alla nonnina che è in coda alla Posta, sorrido all’arcobaleno che attraversa il Cielo, sorrido ad ogni alba che la Vita mi dona. E sorrido di me e dei miei dubbi trasformati in certezze dalla pace di quel sorriso.

Prima di chiudere la finestra allungo la mano verso la stella più luminosa, e ricambio il suo sorriso.

 

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 febbraio 2020

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