Il 20 ottobre di 60 anni fa moriva Corrado Govoni, originario di Tamara vicino Copparo: i drammi e quel fuoco inesauribile

di Valentina Rossi

Il 20 ottobre di quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario della morte di Corrado Govoni, poeta ferrarese che, seppur poco ricordato, ha interpretato con i suoi versi il passaggio della nostra società dall’Ottocento al Novecento, dando una lettura innovativa della realtà e del senso della scrittura.

UNA VITA FRA SOGNI, DOLORE E GRIGIE DISILLUSIONI

Govoni stesso, nel suo Testamento letterario, scritto su richiesta dei goliardi copparesi nel 1958, descrive la sua nascita a Tamara e le sue origini: «Io vidi la luce il 29 ottobre del 1884, nella casa paterna contrassegnata col numero civico 37, in prossimità della maestra, nel punto preciso del rosso paracarro dei chilometri che porta il numero 13. Con questo iettato 13 si possono spiegare tante cose. Discendo in ogni modo da un’agiata famiglia di mugnai e di agricoltori. Ed anch’io, nella mia lontana giovinezza, mi dedicai con successo per qualche anno all’agricoltura dei cinquanta ettari di mia proprietà, per il quale esercizio avevo una naturale spiccatissima disposizione».

Dopo il collegio dai Salesiani a Ferrara e studi da autodidatta – come racconta ancora lo scrittore – «l’inclinazione per la poesia, che fu ed è ancora per me una vera dannazione, ebbe il sopravvento su quella per l’agricoltura, giungendo a rappresentare così la mia rovina e quella della mia povera famiglia. Le difficoltà economiche, le disgrazie e traversie familiari mi sbalestrarono, mentre inseguivo gli ingannevoli traditori sogni della poesia, dal paese natìo a Ferrara, da Ferrara a Milano ed alla Riviera Ligure, poi ancora a Ferrara, inguarito di nostalgia e di mal di paese, e finirono per spingermi sventuratamente a Roma, dove pare che io abbia messo le mie definitive dolorose radici: le sante umane radici dei miei poveri tragici morti». Qui dapprima lavorò alla Società italiana autori ed editori e, dal 1924 al 1943, fu segretario del Sindacato nazionale autori e scrittori. Disoccupato nel primo dopoguerra, fu poi impiegato presso il Ministero della Pubblica Istruzione, confessando di soffrire molto per la ripetitività del lavoro. Dal matrimonio con Teresa Albisetti ebbe tre figli: Aladino, Ariele e Mario.

Nel 1944 il primogenito Aladino, che militava nella Resistenza, venne ucciso alle Fosse Ardeatine (per questo è Medaglia d’oro al valor militare e a suo nome, nel 2024, è stata proposta la posa di una pietra d’inciampo di fronte al numero civico 16 di via Trasone, dove risiedeva con la famiglia). Il poeta morì poi ottantunenne, il 20 ottobre 1965, nella sua casa al Lido dei Pini presso Anzio. Ma dal tragico assassinio del figlio Teresa e Corrado non si ripresero mai, come mostra la loro tomba nella Certosa di Ferrara, sormontata da tre croci ed affiancata da alcuni versi del poemetto Aladino. Lamento sul figlio morto: «Quante croci ho portato in vita mia:croci d’amore, croci di poesia.Tante ne vidi, e tante ne portaiche persino le braccia in fiore al mandorlo vidi alzar disperatamente in croce.Ma la croce più perfida ed amaraè quella che ora porto nel mio sangue,inchiodata con chiodi incandescenti:la croce della povera tua bara».

PAROLE PER UN NUOVO SECOLO: LA REALTÀ TUTTA IN UNA PAGINA 

Ma dal punto di vista della poesia perché non possiamo permetterci di dimenticare Govoni? È il 1903, il giovane ha appena diciotto anni e alle spalle soltanto molte letture fatte da solo con grande entusiasmo, quando decide di pubblicare, investendo l’eredità della nonna, Le Fiale e, poco dopo, Armonia in grigio et in silenzio, le sue prime raccolte.

Nello stesso anno escono anche I Canti di Castelvecchio di Pascoli, e il primo libro delle Laudi di d’Annunzio, poeti di ben altra fama, e forse proprio questa coincidenza temporale aiuta a mettere in luce l’importanza che i libri govoniani assumono nell’evoluzione della poesia italiana. Mentre D’Annunzio con i suoi versi tratteggia l’immagine del poeta vate dal «vivere inimitabile», che guida i pensieri delle masse, mentre Pascoli incarna il poeta fanciullino, che sa comprendere le voci misteriose e segrete della Natura, Govoni, che si è formato leggendo le loro opere, è consapevole di non poterle semplicemente imitare, ma di dover adattare i loro insegnamenti alla propria esperienza dando origine, contemporaneamente ad altri poeti come Corazzini, Moretti e Gozzano, alla poesia crepuscolare. I modelli subiscono un abbassamento di tono per poter andare incontro a quella realtà provinciale che il poeta si trova a vivere. 

Nel 1905 egli pubblica Fuochi d’artifizio, in cui continua la descrizione di piccole cose e di realtà umili, ma ora la vita è presentata con tutta la gamma dei suoi colori: «il mao si stira sopra il davanzale sbadigliando nel vetro lagrimale. Nella muscosa pentola d’argillail geranio rinfresca i fiori lilla.La tenda della camera sciorinale sue rose di fine mussolinaI ritratti che sanno tante storieson disposti a ventaglio di memorie.… Le rondini bisbigliano nel nido.Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.Il cielo chiude nella rete d’oro la terra come un insetto canoro.Dentro lo specchio, tra giallastre spume ritorna a galla il polipo del lume.La tristezza s’appoggia a una spallieramentre le chiese cullano la sera». (da Crepuscolo ferrarese). Dalla raccolta successiva, Gli Aborti del 1907, il cui titolo allude ancora ad una poesia fatta di povere cose, si assiste però alla comparsa di liriche costruite come catene di immagini ed elenchi di oggetti con cui il poeta vuole descrivere tutta la varietà del reale e, mentre accumula particolari, sorretto dalla gioia dello scrivere, egli coglie inconsapevolmente la disgregazione della realtà, che tanta successiva poesia del Novecento indagherà in seguito con toni più profondi, ma più cupi. Ecco l’inizio di Le cose che fanno la domenica: «L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.Il canto del gallo nel pollaio.Il gorgheggio dei canarini alle finestre.L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.La biancheria distesa nel prato.Il sole sulle soglie.La tovaglia nuova nella tavola».

Le successive raccolte, Poesie Elettriche, Inaugurazione della Primavera e Rarefazioni, pubblicate fra il 1909 e il 1915, risentono dei rapporti non sempre facili che il poeta ebbe con Marinetti e il Futurismo. La libertà che egli conquista nelle poesie di questi anni è quella di poter affiancare motivi vecchi e nuovi: guarda il mondo con un entusiasmo inesauribile, lo scompone nei suoi singoli oggetti per descriverlo con immagini, lo ricompone sulla pagina riducendolo, dirà Montale, ad un «fiabesco inventario privato», come mostrano i versi iniziali de Il giardino: «È una sera divina della primavera fondente come una caramella di menta glaciale che si succhia si succhia finché non resta più niente salvo una sensazione di verdi e freschi pratiche dura nella bocca lungamente». Continuerà così negli anni successivi la poesia di Govoni, una «disperata forza di illusione» che vuole catturare il mondo brulicante, sentito sempre sul punto di svanire.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025 

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