Da diversi anni si discute sull’importanza di assecondare adolescenti (e bambini) che si sentono nel “corpo sbagliato”. Ma è pericoloso stare al ricatto etico di chi urla sempre alla “discriminazione”. In tanti Paesi se ne stanno accorgendo, bandendo i farmaci bloccanti…
di don Augusto Chendi*
In questi ultimi tempi con sempre maggiore insistenza a livello letterario, di programmi televisivi nonché di progetti educativi si sta assistendo all’emergere di un nuovo tassello nel mosaico del dominio scientifico sulle varie sequenze relative al sorgere e allo svilupparsi della vita. Si tratta, nel caso specifico, della possibilità di manipolare la pubertà negli adolescenti.
In verità, sono già molti anni che in ambito medico si parla della possibilità di utilizzare trattamenti farmacologici per fermare la pubertà nelle persone che presentano quella che tradizionalmente viene definita “disforia di genere” o – secondo la più recente terminologia clinica – “incongruenza di genere”. Alla base di questo trattamento farmacologico vi è la costatazione che i cambiamenti che il corpo subisce durante la pubertà producono, in alcuni e limitati casi, un aumento del dolore psicologico dei minori che non si sentono a loro agio e non si rispecchiano nel sesso anagraficamente loro attribuito. Situazioni, queste, che con sempre maggiore incidenza compaiono anche nelle reazioni suicidarie di adolescenti, spesso resi oggetto di persecuzioni e di violenze fisiche e psicologiche, riconducibili alle diverse e subdole forme di bullismo che oggi imperversano nella nostra società.
In particolare, la incongruenza di genere è una condizione di sofferenza emotiva dettata in alcuni adolescenti dal sentirsi nel “corpo sbagliato”. Lo sviluppo puberale, infatti, con la comparsa dei caratteri sessuali secondari, è un periodo cruciale per il consolidamento verso la persona adulta e può comportare un aumento del livello di sofferenza emotiva del minore fino a fare avvertire, in alcuni casi, l’incongruenza tra l’identità di genere – il sentirsi maschio o femmina – e il suo sesso biologico, definito alla nascita.
In questa fase dello sviluppo fisico, emotivo, affettivo e valoriale, l’accompagnamento delle esperienze di incertezza di genere durante l’infanzia e l’adolescenza – casi clinicamente accertati in percentuale molto ridotta – si è orientato verso due distinti approcci: il cosiddetto “watchful waiting”, cioè di attesa vigile, che consiste nell’osservare con attenzione l’identità di genere che viene dichiarata dalla giovane persona, riducendo le difficoltà e gli ostacoli che dall’esterno potrebbero turbare il naturale sviluppo della stessa identità di genere; il secondo approccio, definito “modello affermativo”, prevede, invece, un intervento sul contesto sociale in cui vive la persona che manifesta un’incertezza di genere in modo che questa venga riconosciuta.
Al riguardo, il percorso proposto in vista di una transizione volta a modificare i caratteri morfologici della sessualità biologica per adeguarli a quella psicologicamente avvertita comprende, congiuntamente alla somministrazione di terapia psicologica e in seguito chirurgica, anche l’impiego di particolari farmaci, la maggior parte dei quali a base di ormoni. Questi hanno la funzione di ritardare il periodo della pubertà o di orientare già in modo diverso lo sviluppo sessuale secondo la sensibilità e la disposizione dell’adolescente o di chi ne è legale rappresentante.
Sull’uso dei farmaci bloccanti della pubertà somministrati ai minori nei suddetti casi di incertezza per intraprendere poi il percorso di cambio di sesso, la comunità scientifica, comprese le diverse Associazioni di pediatri, psicologi, psichiatri, le Società psicoanalitiche dell’età evolutiva… nonché le Istituzioni pubbliche e i Comitati di Bioetica, sono passate da un forte iniziale entusiasmo a posizioni al presente più composte e attendiste, decretando, in alcuni Paesi, anche il bando definitivo dell’uso soprattutto delle suddette terapie ormonali fino a una revisione delle evidenze scientifiche della sperimentazione in atto, richiedendo altresì studi clinici indipendenti, finalizzati a ottenere dati dirimenti sull’efficacia e sui rischi della somministrazione dei summenzionati farmaci ormonali, che a tutt’oggi non appaiono adeguati all’obiettivo clinico previsto, e che oltretutto hanno dimostrato avere rilevanti controindicazioni per severi effetti secondari negativi. In questo caso, l’invito pressante alla prudenza costituisce un primo e positivo passo, dettato dai principi fondamentali della bioetica.
Al di là della discussione che attiene al mondo scientifico e alle conseguenti decisioni in campo politico e legislativo, la domanda di fondo potrebbe essere posta in questi termini: è possibile ed è eticamente lecito cambiare il nostro corpo, in specie in quegli elementi che complessivamente afferiscono alla nostra identità sessuale e che conseguentemente concernono la stessa sfera emotiva, affettiva, relazionale, spirituale… comportando poi anche inevitabili conseguenze in ambito giuridico-legale?
È bene chiarire che qui non si tratta di occuparci di patologie degli organi genitali non totalmente sviluppati o ambigui o con pesanti imperfezioni nello sviluppo anatomico, bensì della convinzione dell’adolescente di sentirsi imprigionato in un corpo e in un sesso biologico avvertito come incompatibile con l’identità psicologica soggettivamente vissuta. Di fatto, qualora anche si procedesse con un processo chirurgico di transizione o riassegnazione sessuale alla modifica dell’apparato genitale maschile o femminile, tali interventi muterebbero soltanto la dimensione esteriore del soggetto coinvolto, in quanto il maschio custodisce sempre in tutte le cellule del suo corpo i cromosomi XY e la femmina XX. Per questa ragione è inattuabile la variazione dell’identità biologica, costituendo questa la pietra fondante e strutturale delle caratteristiche somatiche e funzionali di ogni donna e di ogni uomo.
Da cosa sono generati, dunque, il martellamento e l’insistenza attuati dai diversi mezzi di comunicazione sociale circa la possibilità di manipolare lo sviluppo della pubertà e, conseguentemente, di una presunta non adeguata e innaturale affettività? La domanda ha una sua giustificazione inoltre dal fatto che questo fenomeno propagandistico si accompagna alla convinzione di alcuni educatori, secondo i quali la promozione in ambito scolastico delle tematiche circa l’educazione sessuale e affettiva aiuti le giovani generazioni ad una presa di coscienza delle potenzialità innate nella sessualità umana in senso ampio, favorendo in tal modo la piena maturazione della persona adulta. Di fatto questi progetti scolastici, trasformati sovente in strumento di promozione e diffusione delle tematiche transgender, seminano invece confusione nella mente dei bambini e degli adolescenti – nonché nelle famiglie -, incoraggiandoli a dubitare della loro identità. Vero è che la pubertà costituisce un processo fondamentale e delicato di maturazione dell’adolescente verso la persona adulta, e non può essere incautamente manipolato.
Atteso il peso che la possibilità di manipolare farmacologicamente la pubertà ha acquisito in più ambiti, è forse doveroso porsi il dubbio se non si è piuttosto in presenza di un risultato della cosiddetta ideologia del gender, sorta negli anni ‘70 del secolo scorso, che propugna e sostiene la dissociazione dell’“identità sessuale” (o “sesso biologico”) dall’“identità di genere”, intesa come ruolo socio-psicologico intercambiabile a volontà, finanche a riconoscere l’esistenza di una “identità neutra”.
In concreto, cavalcando e portando alle estreme conseguenze il predominio o il riscatto dell’elemento psicologico rispetto alla natura, in nome della liberazione e dell’affrancamento della donna dall’oppressione patriarcale del maschio per affermare una parità tra i due sessi, nessun limite è più riconosciuto, ma tutto dev’essere gestito dalla libertà del singolo, che – come impone l’ideologia del gender – si vorrebbe sganciata dal dato naturale e da ogni vincolo relativo ai valori e alle conseguenti funzioni del maschioper realizzare pienamente e autonomamente il proprio benessere individuale, spesso identificato con le emozioni. Una libertà, dunque, senza un orizzonte di senso, che consenta di compiere soltanto ciò che maggiormente gratifica.
Abbracciando questa teoria ideologica, ogni differenziazione, come ad esempio tra maschio, sesso, ruoli afferenti al maschile…, viene giudicata come “discriminazione”. Vocabolo, la “discriminazione”, che nella nostra attuale cultura è venuta sovente a costituire un tutt’uno inseparabile con la rivendicazione di “diritti”, veri o presunti, di ogni genere, spesso privi di un effettivo radicamento in originari valori umani e naturali, come ad esempio quello della distinzione e complementarietà insieme dei sessi, della famiglia composta da maschio e femmina, della generazione da un padre e da una madre…
Aver ricondotto il problema specifico della manipolazione farmacologica della pubertà al suo substrato culturale, ovvero all’ideologia del gender che ormai pervade tutti i livelli della nostra società e cultura, non significa non farsi carico di particolari situazioni di disagio avvertito da alcuni adolescenti nella fase di maturazione verso l’età adulta. Ma, a maggior ragione, non significa negare una giusta valorizzazione dei sessi nella loro pari, inseparabile e insieme complementare dignità. Significa, piuttosto, compiere uno sforzo per rendersi conto a tutti i livelli – dalla formazione educativa scolastica e familiare alla pratica clinica – che educare alla parità non implica necessariamente compiere delle discriminazioni e tantomeno negare le differenze.
* Direttore Ufficio diocesano Pastorale della Salute
(Foto: Freepik)
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 ottobre 2025
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